martedì 10 dicembre 2013

Come d'inverno l'odore del novanta barrato

Poche condizioni stimolano la creatività più della fine di un amore: le sostanze stupefacenti sono un buon esempio. O l’utilizzo dei mezzi pubblici.
Punto primo: va bene la devozione per l’arte, ma l’amore - quando ce l’abbiamo - è meglio che ce lo teniamo stretto. Punto secondo: ho cercato di evitarlo in tutti i modi, ma mia madre legge questo blog. Punto terzo: in tempi di crisi economica e creativa, non sottovalutate mai le potenzialità di un abbonamento ATM.

C’è una linea di autobus, a Milano, che viene chiamata La Circolare. Per quanto la cosa possa sbalordire i turisti americani e irritare i pensionati torinesi, Milano è fatta a cerchi. La Circolare passa dal cerchio più esterno e gira e gira come un calcinculo alla fiera di San Luca, raccogliendo un’umanità varia e variabile, tra cui, a un certo punto, la sottoscritta.
Un giro sulla Circolare rende inutili Avventure nel Mondo e, dopo una certa ora, anche American Horror Story. È un’esperienza istruttiva che a volte ti apre il cuore sulla gente e a volte, nel cuore, ti ci fa nascere un piccolo Calderoli. In ogni caso, è una delle esperienze più ispiranti che si possano fare la mattina prima delle nove.
A proposito di i(n)spirazione, oggi pensavo che d’inverno la puzza sulla Circolare è ovviamente molto più rara che in estate. Questa notizia banale non deve essere presa con leggerezza, perché se il cattivo odore d’inverno è meno frequente, è certamente vero che è anche più intenso, inestinguibile e pestilenziale.

Un po’ come l’amore: quello raro, inaspettato e fuori stagione, è sempre il più difficile da ignorare. Nell’inverno dei cuori, l’amore è una sorpresa che non si può evitare, intensa e disarmante come la puzza del giubbotto pesante del barbone che dorme sui sedili di coda del Novanta Barrato.


martedì 26 novembre 2013

Il regalo più bello

C'era un regalo sotto il letto, l'aveva trovato cercando le mutande: sedere al vento, la sua camicia addosso; se fosse riuscita a trovare una cravatta ci avrebbe fatto una cintura  e sarebbe uscita così, sotto la pioggia.
Ma prima doveva trovare le mutande. Era una parola così brutta, pensava, ma erano ancora più brutti tutti quei nomi che la gente si inventava per non dirla.
Mutandine: un babà è sempre un babà, anche se la pasticceria ti vende un mignon. Solo che è più piccolo e c'è meno rum. Era il nome che la innervosiva di più.
Slip: David Beckham non avrebbe mai coperto, con la sua grazia, le immagini di tutti gli uomini di mezza età su tutti i bagnasciuga del mondo. Le piaceva un po' di più solo perché le ricordava il suono di quando, agganciato a dita frementi, scivola giù.
Poi c'erano le varianti in cui la forma si sostituiva alla funzione: coulotte, tanga, brasiliani. Babà ancora più grossi, uomini di mezza età sui bagnasciuga di Mykonos: non le piacevano, nomi artificiali, un po' bigotti. C'era chi non le chiamava affatto e parlava di biancheria, di lingerie: sicuro era gente che non la perdeva sotto letti che non era certa che avrebbe rivisto. "Tesoro, dove è finita la mia lingerie?" Come farsi un giro nel centro di Roma e chiedere a un giapponese la strada per arrivare a quella chiesa famosa.
Adesso se ne vergognava un po', di quelle mutande sciocche, da adolescente. Si pentiva di non aver indossato qualcosa di pizzo nero, o magari quelle azzurre, trasparenti. Ma non sarebbe cambiato niente, non avrebbe voluto comunque cambiare niente: le mani, le labbra, i morsi leggeri, la notte. Non avrebbe cambiato nemmeno la ricerca frettolosa del giorno dopo che le avrebbe fatto scoprire quel regalo sotto al letto. Non lo avrebbe aperto, si sarebbe vestita e raccolto i capelli, gli avrebbe lasciato baciare il collo, gli avrebbe baciato le dita delle mani lentamente, una per una, e avrebbe aspettato.
Perché le sorprese migliori a volte preferisci lasciarle nel loro nascondiglio sotto a un letto e aspettare che siano loro a venire da te quando sono pronte per essere aperte. E mentre si metteva il rossetto sorrideva, perché sapeva che per l'occasione avrebbe indossato le sue mutande più belle.



martedì 19 novembre 2013

Non sai, ci vuole scienza, ci vuol costanza ad invecchiare senza maturità

Marzo 2009, era la serie delle Olive nello Sciroppo d'Acero. 
Non sono cambiate poi tante cose in quattro anni e la cosa mi commuove.
Un po' è gioia, un po' mi sa di no.

Prologo
Mentre ero in banca un gentile signore mi ha regalato un biscotto della fortuna. Il bigliettino recitava: "A child will give you food for your thoughts". E così ho pensato di fare due chiacchiere in chat con mia nipote, che ha da poco compiuto quattordici anni.

N: Ciao Aunty! ho ricevuto il tuo biglietto. I'm so happy, thank you, it's wonderful.
O: Ciao! sono contenta che ti sia piaciuto. Allora, come hai festeggiato?
N: I festeggiamenti con i parenti sono sabato sera. Comunque ho ricevuto dei cioccolatini, una tuta e una stampante.
(Una stampante? vabbe'.)

N: I cioccolatini erano buonissimi. Ma tu come stai?
O: Sto bene, mi diverto, faccio tante cose...
N: Il lavoro ti piace?
O: Sì, va bene... ma mi piace soprattutto perché mi dà tanto tempo libero.
N: Beata te. Io tra la scuola, i compiti, danza e la preparazione degli esami non ho un momento libero. Verrei anche a trovarti ma...
(ma tua madre non ti lascia ancora viaggiare sola)

N: ... ma non ho davvero tempo.
(E io che pensavo che il tempo diventasse un problema solo dopo i 25)
O: Beh, ma tanto torno presto, dai.
N: Che bello, almeno ci vediamo. Ti manca l'Italia?
O: Mi mancate voi, gli amici, la pizza... ma l'Italia in generale non tanto. Qui si sta davvero bene, è un posto civile, la gente è rispettosa e aperta.
N: La pizzaaaa non c'è? Come fai a vivere senza? Io morirei
(fiù, una cosa da quattordicenne at least)

O: No be' c'è, ma non è come quella di casa. Tipo che va un sacco quella con ananas e prosciutto.
N: Ananas? Che tipi buffi i canadesi!
(deve aver visto Mary Poppins recentemente)

O: Puoi dirlo forte baby!
N: ...
O: Guarda le mie foto sullo snowboard
(segue link a facebook, strumento che lei ignora, non nel senso che non lo conosce, nel senso che è superiore)

N: Bellissime, che posti meravigliosi! Vorrei poter vederli anche io.
O: Beh, hai tempo dai.
(smetterai di fare danza prima o poi)

N: Eh non lo so, poi c'è il liceo e poi voglio fare l'università. Voglio fare medicina. Che ne pensi?
(penso che se continuo con questa vita dissoluta, un giovane medico in famiglia mi sarà di grande aiuto)

O: Medicina è pesante e molto lunga, ma se ti piace davvero, se sei convinta...
N: Sì, mi piace molto. So che è difficile, ma voglio farla.
(ok, sto zitta)

O: Se ti piace tanto allora vedrai che non ti peserà. Se sei convinta che è la cosa giusta fai bene a farla. Io ho sempre ammirato le persone con le idee chiare sul loro futuro.
N: Tu volevi fare il tuo lavoro da piccola?
(mmm... ecco, questo è un problema. a parte che il mio lavoro non esisteva quando ero piccola. e ok che avevo un sacco di fantasia... e poi, cioè, non è che proprio faccio quello che voglio, o meglio, diciamo che non so ancora quale lavoro voglio fare. magari tra un po' scopro che è proprio questo, eh,  mica dico di no)
O: Non proprio. Diciamo che non ho mai avuto un sogno in particolare. E' un lavoro che è venuto così, col tempo. Però sono soddisfatta. Mi piace. E comunque ognuno ha il suo modo.
(shhh, le chiamano bugie a fin di bene)
O: L'importante è che quello che fai ti piaccia.
(grazie tesoro)
O: Oh, quando torno mi devi insegnare la piroette.
N: Ok, e tu mi insegni lo snowboard
O: Affare fatto
(forse dovrei dirle che le foto erano da ferma e che, insomma, sulla parte in cui ci si muove ho ancora qualche difficoltà)

N: Ma poi cosa fai? Hai tanti amici?
O: Sì, abbastanza... insomma abbastanza da non sentirmi sola.
N: A volte essere soli aiuta a maturare.
O: Vero, è una parte positiva dell'essere lontani da tutti in un paese straniero. Dovresti provarla.
(tzè, poi ne riparliamo)

N: Spero di averne l'occasione.
O: L'occasione la crei! Quando sarai più grande vedrai che troverai modo
N: Se faccio medicina non so...
O: Oh ma che secchiona. Lo studio è importante, ma devi anche vivere un po'... Ohi, però non dire a tua mamma che ti ho detto sta cosa, se no ti toglie msn
N: Ok. E poi che cosa fai?
O: Faccio lezioni di francese, nuoto, faccio foto, (scrivo cazzate sul mio blog), sto imparando anche a ballare la salsa. Io preferisco il rock, sai, però ci sono questi miei amici simpatici che la ballano e alla fine è divertente. Ah, e poi domani vado a fare tubing.
N: Che cosa è?
O: Scivoli sulla neve con una specie di canotto.
N: Bellissimo. Zia sei fantastica!
(l'ho conquistata ^^)

O: ehehe, sto cercando di cogliere tutte le occasioni e di divertirmi
N: giusto, fai bene tu che puoi
(oh, ma adesso mi vuoi far sentire in colpa?)
N: zia... devo chiederti una cosa
(ecco lo sapevo, adesso mi chiederà se la mia vita sessuale è soddisfacente e poi mi darà un paio di dritte su come sviluppare il pavimento pelvico, derl resto vuole fare medicina...)
O: va bene, dimmi.

N: ... ma tu, le balene le hai viste?

martedì 12 novembre 2013

Senza titolo

Non aveva mai creduto in dio. L’idea di un signore con la barba che vive sulle nuvole le era sempre parsa ridicola. Però credeva in tante cose che, messe tutte insieme, facevano un baffo al signore con la barba.
Credeva, ad esempio, che i giorni sono tutti uguali, finché non ne arriva uno diverso. Credeva che le cose succedono per caso, ma quel che ci resta, con il caso non ha nulla a che spartire. Soprattutto era convinta che ogni persona avesse qualcosa da insegnarle.

Luca in terza elementare le aveva insegnato che non si regalano profumi ai maschi per San Valentino. Che anche alle femmine è meglio non regalare profumi, le era arrivato in insegnamento da Sergio, insieme al flacone ben impacchettato trovato in omaggio nel fustino del Dixan.
Dalla sua amica Eva aveva imparato a lasciare con classe, da Pietro aveva capito che conta di più essere lasciati con classe. Aveva imparato a baciare, che non è una cosa banale, ma il nome di chi glielo aveva insegnato non lo voleva dire mai più. Crescendo, le cose che imparava erano più complicate e in ogni caso sempre più brutte o sempre più belle delle precedenti.

Era così immersa in questi pensieri che aveva saltato la fermata, avrebbe camminato un po’: era in anticipo e aveva creduto di essere in ritardo, e il fatto di dare la colpa al cambio dell’ora e non alla vodka la faceva sentire vecchia, e un po’ bugiarda.
Era convinta che sarebbe stato uno di quei giorni uguali a tutti gli altri: gli uomini passeggiavano sempre con l’impermeabile sopra il pigiama, le macchine si spegnevano ai semafori e le foglie continuavano a cadere scivolando sotto i tacchi delle signore pronte per la messa.

Non sapeva ancora che quel giorno sarebbe stato un giorno un po’ diverso: il parrucchiere le avrebbe insegnato che i boccoli non erano di moda, quell’inverno; Sara le avrebbe insegnato la ricetta dei biscotti di zenzero e un messaggio da molto lontano le avrebbe ricordato che l’amicizia vince il tempo e lo spazio, anche senza velocità.
E poi avrebbe imparato che proprio quando non ti aspetti nulla arrivano le sorprese migliori, e che le sorprese migliori a volte portano lo stesso nome che avresti giurato di non dire mai più.

mercoledì 6 novembre 2013

Questione di livelli

L’amore è una questione di livelli. Questo pensava Agnes raccogliendo i vestiti sparsi sul parquet.
C’erano dei pantaloni molli, forse un pigiama, c’era la buccia di una banana mangiata quando era ancora troppo verde, i fogli di un giornale patinato. L’amore era tutta una questione di livelli per Agnes. Puliva i residence degli studenti, non era un brutto lavoro: capitava di dover pulire il vomito, quello sì che le faceva schifo, ma il più delle volte doveva solo spostare dei libri e piegare qualche camicia, qualche bel golf.
 
Ecco il primo livello dell’amore, la raccolta. Raccogli oggetti, indizi. Devi imparare ad amare tutti i significati che si portano dietro le mutande abbandonate, le parole ascoltate con troppa fretta. Ti devi chinare, devi toccarli, sentire quel che hanno da raccontarti con il loro profumo, il loro colore, il tempo che li ha trasformati o la novità che li ha portati presto a essere dimenticati. Crei un racconto, l’idea dell’altro, qualcosa che si avvicina alla sua conoscenza e lì puoi decidere di fermarti.
Oppure puoi passare al secondo livello (ah, la volontà, che cosa sarebbe l’amore senza la volontà?).

Il secondo livello è l’ingresso. Capita che gli indizi ti piacciano (a volte capita anche ad Agnes tra un giro di polvere e una lavatrice) e allora vai, cerchi di entrare. L’ingresso è fondamentale: si tratta di passare da come ti appare una persona a quel che questa persona lascia scoprire di sé. Non è scoprire la sua verità (e chi la conosce, davvero, la verità su se stesso?): è entrarci dentro. Magari non la sai, magari non ci capisci niente, ma in quella stanza ci rimani e te ne lasci inondare.

Agnes lo faceva, a volte. Le era capitato con uno studente dell’ultimo anno. Erano rari quelli dell’ultimo anno; di solito andavano in appartamenti indipendenti, si spostavano. Lui invece era rimasto nella stessa stanza per tre anni. Agnes amava quella stanza: aveva raccolto pagine stracciate e dischi rotti, aveva raccolto petali di fiori, sentito il profumo delle ragazze che passavano i pomeriggi a studiare lì. Anche lei studiava, ma lo faceva in un’università statale, studiava filosofia senza la speranza che questo la allontanasse dalle pulizie nei residence e negli uffici. In quella stanza non aveva solo raccolto, aveva ascoltato, respirato, sentito la verità del ragazzo dell’ultimo anno. Non era passata al terzo livello.

Il terzo livello è l’abbraccio. Agnes non abbracciava un ragazzo da tre anni, ma questa è un’altra storia. Dopo che hai raccolto gli indizi, dopo che sei entrato nell’altro: ecco, dopo lo devi abbracciare, stringerlo come la corteccia di una quercia centenaria, come il pupazzo di quando eri piccolo o la sabbia bagnata. Lo abbracci finché il punto in cui finisci tu e inizia lui ti sembra non avere più importanza. Accetti, prendi, dai. In quella stanza in cui ti sei fatto affascinare dagli oggetti caduti dalle mensole, quella stanza in cui hai ammirato estasiato i segni dei suoi passi, proprio in quella stanza, con l’abbraccio, inizi a vivere. E non conta tanto quanto ci resti, conta che ci sei.


giovedì 24 ottobre 2013

Lost Lagoon

Un racconto della fine del 2010. 


"E' che sono stanca. Forse non ti sopporto più."
Guarda un sasso da vicino, ne studia le imperfezioni con l'indice.
"Sì, mi soffochi. Come una coperta sulla faccia. No, come una valanga".
Si bagna il dito con la saliva e disegna una faccia sul lato più liscio del sasso.
"Perché non mi guardi?"

Le concede un'occhiata, inspira.
"Dovresti dire qualcosa."
Gli prende il sasso dalla mano, lo lancia nello stagno. Per poco non prende un cigno.
"Credevo di averti stancato."
"Lo so."

Gli appoggia la testa tra le scapole, gli stringe la pancia con le braccia.
Trattiene il fiato, uno di quegli uccelli neri si è buttato sott'acqua, non respira finché non lo vede riemergere.
"Hai ragione."
"Cosa?"
"Soffocare. Non è piacevole."
Lo lascia andare.
Gli viene in mente la canzone di una pubblicità. Deve comprare il detersivo. Delle birre. Stanno facendo tardi.

"Era solo una metafora."
"Lo so."
"Ti amo."
"Anche io."
"Lo so."

lunedì 21 ottobre 2013

A/B Normal

Nel mondo della pubblicità, l’A/B testing è una metodologia che permette di decidere quale variante di una comunicazione raggiunge meglio l'obiettivo. Le due varianti vengono somministrate a due gruppi diversi ma omogenei di pubblico e quella che dà i risultati migliori viene poi scelta come definitiva e utilizzata sulla totalità dall’audience.

Per farla semplice, con l’A/B testing capisci se è meglio mettere il bottone “Registrati”  in basso a destra o se la foto con lo sfondo blu ti farà fare più soldi di quella in bianco e nero.
In breve, è un modo per non prendere decisioni.
Un modo per farle prendere agli altri.
Praticamente il paradiso del maschio tra i 25 e i 40 anni.

Capito la svolta?
Con questa tecnica non sei tu a decidere che cosa sia meglio per te (il tuo sito, la tua campagna di pubblicità, la tua iniziativa di raccolta fondi per diventare Presidente degli Stati Uniti, la tua relazione problematica con la suocera); con questa tecnica lo fai decidere agli altri. Tu devi solo definire l’indicatore sulla base del quale, a un certo punto, l’opzione A prevarrà sulla B o vice versa: vendite di pannolini per i primi passi, calo significativo dell’effetto serra, felicità in genere.


Vorrei rinascere in un’epoca in cui l’A/B testing sarà uso comune anche per le scelte solide della quotidianità: un universo dove un’Olivia prende il 2 e l’altra la verde e la prima che arriva a Lanza compra i biglietti per il prossimo Cyrano, che verrà visto da una delle due, mentre l’altra uscirà con quel tipo che un po’ le piace, sì, ma non la convince fino in fondo e quindi non sa se val la pena saltare la prima di Cyrano con la zia che viene a trovarla dall’Umbria per uscire con un tipo che non è che le piaccia poi molto.

Insomma, una vita così, dove non sbagli mai. O se sbagli, almeno lo sai. Perché il problema delle decisioni, nella vita reale, non è tanto che devi prenderti la responsabilità di prenderle. Non puoi stare in eterno nel mezzo di un incrocio, questo lo sanno anche i bambini di quattro anni. Il problema, nella vita reale, è che una volta che scegli di prendere una strada non puoi sapere come sarebbe andata se ne avessi presa un’altra.
Anche tutta la faccenda del meglio un rimorso che un rimpianto, se ci pensi bene, non ha nessun senso. E' tutta un'illusione a posteriori. Che differenza c'è tra il rimpianto per non avere preso il tram e il rimorso per essere salito sulla metro? Nessuna. E lo sai. Ed è così che ti arrabatti tra paure, divinazioni, buoni consigli e cattivi esempi. Perché non c'è differenza tra un rimorso e un rimpianto e soprattutto perché non puoi fare un A/B test nella vita reale.

Che poi, lo confesso, ogni volta che penso a A/B testing mi viene in mente questo:


giovedì 17 ottobre 2013

Diamo i numeri

In questi giorni mi sono sforzata di utilizzare la mia mente matematica. Vi assicuro che c’è, anche se puzza di excusatio non petita. E allora vi racconto di come ho imparato a fare una stima del numero di olive in un barattolo da 250 grammi. Ho guardato un barattolo, pensato a quanto pesa un'oliva e quanto pesa il vuoto e ho calcolato che in un barattolo così di olive non ce ne è mai abbastanza.

Ma sono di parte, io, certo.

Ho anche imparato che le calcolatrici, a gran sorpresa, sono utilissime per fare calcoli: tipo che calcolano in un solo colpo quanto è il 30% in più di 1.789, che è poi anche l’anno della Rivoluzione Francese e se lo aggiungi a 1.776, che è l’anno della Rivoluzione Americana, ti dà le ultime quattro cifre del mio numero di telefono.

Insomma, è stata una settimana fiacca dal punto di vista creativo e non c’è stato nemmeno l’annuncio di un premio Nobel per la Letteratura. Però una ragazza di 28 anni ha vinto il Booker Prize con un romanzo di 823 pagine.

Così, per dire che pochi numeri, a volte, raccontano il 30% in più di mille parole.


martedì 8 ottobre 2013

Turpe voglia, occhiali 3D

Uno dei miei versi preferiti di Guccini recita Poi chiusa la soglia/ Do sfogo alla mia turpe voglia / Ascolto Bach. 



Recentemente ho visto l’ultimo film di Sofia Coppola, prima il vincitore del Festival di Venezia, un po’ di roba vecchia di Almodovar, almeno due titoli nominati per qualche motivo al Sundance. La mia turpe voglia, invece, oggi mi fa pensare con intensità a un giro in un multisala di periferia.
E’ lo stesso genere di desiderio di soggiornare nell’anonimato di un grande hotel di lusso: la voglia di negazione, di perdita, di quell’altrove che, catapultandoti così lontano dal tuo mondo, è il solo a saperti riportare dritto dentro te stesso.
Ho voglia di perdermi in un universo di coda alle casse, di ragazzi con la polo gialla che nascondono una biografia di Chabrol sulle ginocchia, di occhiali 3D, di mani unte di popcorn al burro, di pubblicità, di gente che si alza con i titoli di coda.

Ho voglia di dimenticarmi di spegnere il cellulare e di addormentarmi cullata dalle vibrazioni del dolby digital, dalle tue carezze.





martedì 1 ottobre 2013

Confessioni di una fluffer


A parte che mi chiedo se sono sempre e solo donne. Probabilmente sarebbe più efficiente se fossero degli uomini o, meglio ancora, se gli attori provvedessero da sé. Il porno in tempi di crisi.
Comunque non è che sia un’esperta del genere o che mi stia appassionando di econometria della catena del valore nel settore cinematografico. È la figura che mi interessa.


Un po’ mi sento così, preparatoria: una vita in attesa, un po’ di fatica, poca soddisfazione e poi sotto i riflettori ci va qualcun altro. Per un po’ non è stato poi così male: ho imparato, ho imparato molto. Nel grande equilibrio della vita, ho pensato, ho dato il mio contributo come tutti; quel che ho fatto l’ho fatto bene, anche dosare le forze è una qualità in determinate situazioni.
Ma adesso non ho più voglia di dosare le forze, conosco la sceneggiatura e posso improvvisare, gli attori non mi intimidiscono più e il pubblico conterà solo alla fine della storia. Il film verrà bene, ci conto. E se verrà male, me ne prenderò la colpa. Meglio quella che trovarsi come sempre a mani vuote.

giovedì 26 settembre 2013

Un sogno.


Stanotte ho fatto questo sogno.
Eravamo seduti in terra, la stanza era grande e di cemento. Con le gambe stese sul pavimento e le schiene appoggiate al muro guardavamo il buio, in silenzio.

Io avevo freddo e avevo le braccia fredde. Tu avevi caldo e le tue braccia erano calde.
Poi abbiamo poggiato il braccio dell'uno a quello dell'altra.
Non so chi si è mosso per primo, ma dopo non avevo freddo e tu non avevi caldo.

mercoledì 25 settembre 2013

Cum grano salis

Halloween 2010. Chissà perché non pensavo alla zucca.



E' un po' come la differenza che c'è tra fare un impasto con la fecola e uno con la farina di mais. I rapporti con le persone sono così: ci sono relazioni fecola e relazioni mais. Ci sono anche i rapporti ghiaia, ogni tanto. E se voi siete burro o latte, forse non vi farà tanto bene rotolarvi nella ghiaia.
O forse sì.
Sono incontri grossolani, chicchi grossi su grani sottili. Il chicco grosso in alcuni punti graffia, si conficca, lascia stampi rossi sulla pelle; in altri lascia sacche d'aria in cui si disperde l'energia e il senso scorre. Non è che sia un male in sé: può anche fare bene, quest'aria. Magari gonfia l'impasto, lo ossigena, gli fa ingoiare altri elementi che volano nell'ambiente.
Sono casi rari, mi rendo conto. Il più delle volte, i rapporti grosso-sottile non funzionano proprio.
Più i due grani si avvicinano per dimensione, più è facile che le cose funzionino: si forma una bell'amalgama: non c'è uno dei due elementi che prevale, ci si appiccica a vicenda, la pasta diventa elastica e resistente.
Mi è capitato di trovare questa fecola sottile, mi è arrivata addosso come un soffio di vento. Non ne ho percepito l'estraneità nemmeno per un istante. Forse un colore, solo luce, mi lasciava distinguere i suoi grani dai miei. Era diversa da me, certo, questa sostanza. Di un colore viola più cupo, con pagliuzze metalliche. Continuavo a distinguerla con gli occhi mentre mi si mescolava addosso, ma appena li chiudevo mi sentivo come sola, ma raddoppiata.
Capita di chiudere gli occhi e dimenticare il colore che ci fa diversi. Capita di sentire di essere esattamente quello che sente l'altro, di essere l'altro e di sapere che quei grani viola sanno esattamente quello che i nostri grani azzurri stanno per dire.
Capita. E poi magari non basta, e poi le cose non sono più le stesse.
Proviamo a lavarci via la polvere viola, ma il ricordo non ci lascia. E ogni volta che incontriamo un grano grosso, ogni volta che l'impasto si smonta o il sale non si scioglie, ci viene voglia di una polvere che ci si appicchi addosso, che ci tolga dalla fatica di colmare gli spazi vuoti, che ci liberi dal bruciore dei graffi.
Non è che i rapporti così funzionino meglio. Tutto funziona, e niente, allo stesso modo.
Solo ci sono impasti fecola e impasti mais.

venerdì 20 settembre 2013

Di rum non ce ne è mai abbastanza

Le buste della spesa gli stavano tagliando le mani. Odiava quelle nuove buste moderne, che puzzano e si rompono come niente. Anna gli aveva dato 60 euro. Era una cifra che non aveva senso: aveva comprato i dadi Knorr, quelli di pollo, che sapeva che Anna non sopportava di restare senza dadi di pollo, e aveva comprato dei finocchi, perché ne erano rimasti solo due e gli era venuta un po’ di tristezza a vederli così. Poi aveva preso un pezzo grosso di torta al cioccolato, la vendevano a fette, completa di ciliegina e ciuffi di panna. Il suo compleanno era passato già da una settimana; aveva preso anche dei tovaglioli con la scritta Merry Christmas, nel caso non fosse riuscito a passare di nuovo al super prima dei due mesi e ventotto giorni che lo separavano dal Natale.
E poi aveva preso tre bottiglie di rum. Anna si sarebbe arrabbiata, ma se c’era una cosa che suo padre gli aveva insegnato era che di rum non ce ne è mai abbastanza.

mercoledì 11 settembre 2013

Come le olive nel tavolo da biliardo

Ieri sera ho fatto la mia prima lezione di yoga dopo il ritorno dalle vacanze. Non è stata troppo impegnativa e ho fatto uno dei miei migliori triconasana di sempre. Eppure c'era una metafora che mi girava per la testa impedendomi di godermi a fondo i risultati encomiabili della mia pratica. La metafora riguarda le palle, ambito nel quale - vuoi per similitudine di forma vuoi per più triviali ragioni - noi olive ci sentiamo particolarmente a nostro agio.


Ma veniamo al dunque. C'è questo amico mio - ha ancora un bel po' di capelli, sia inteso, stiamo solo imbastendo una metafora - che è una Palla da Biliardo. Le palle da biliardo fanno dei giri, si scontrano con altre palle, prima o poi finiscono in buca, ma fondamentalmente per la maggior parte del tempo rimbalzano tra le sponde. C'è energia, una sorta di forza virile nel loro movimento. L'ambiente è affascinante, i rimbalzi danno alla testa e in ogni caso non è che possa succederti niente di male lì, nel tuo tavolo da biliardo.
Però devi essere disposto a lasciarti disorientare dai rimbalzi e devi essere conscio del fatto che ti trovi su quel tavolo e che se resti palla da biliardo da quel tavolo non ti muoverai mai.
Ecco quel che provavo a dire al mio amico Palla da Biliardo: hey, va bene PdB, sei quel che sei e, almeno per me, va benone così; però devi anche sapere quel che sei. Solo se accetti di essere palla in un tavolo da biliardo puoi godere davvero dei rimbalzi.

Quanto a me, quando - più o meno venti minuti fa - ho capito di essere un'insignificante comparsa di Io Chiara e lo Scuro, ho deciso di lanciarmi in buca e cominciare una nuova carriera da Biglia da Spiaggia. Essere biglia ha diversi vantaggi, tra cui quello di esprimersi al meglio in un contesto salubre e preferibilmente marino. E poi le biglie non schizzano isteriche qua e là, le biglie vanno. Magari a quel paese, però si muovono. E anche quando capitano i momenti di fiacca, hanno la serena sicurezza che prima o poi arriverà uno schiocco di dita, un sedere trascinato sulla spiaggia a formare per loro un nuovo percorso.

È questo il vero succo del discorso. È che nel gioco del biliardo, il campo è delimitato e sì, si possono prendere infinite direzioni, ma da quel recinto no, non si esce. Il movimento crea l'illusione, ma il limite d'azione genera la gabbia. La verità banale è che quando siamo palle da biliardo, ci nutriamo di una libertà, che è tale solo perché restringiamo il campo delle scelte a quel contesto che ci sentiamo di poter controllare.

E se siamo biglie in balia del culo di un settenne cambia forse qualcosa? Anche da biglie abbiamo un campo ristretto, una prospettiva limitata, ma visto che i limiti non siamo noi stessi a imporli, in quel moto eterodiretto possiamo godere dell'avventura di un percorso inaspettato, della varietà di un panorama sempre nuovo.  E, certo, aspettare che qualcuno si inventi le Palle a Moto Autonomo e Perpetuo.

mercoledì 7 agosto 2013

Un motivo per andare

Signore con la giacca grigia: Mi tiene la mano, per favore?
Hostess: Ha paura?
Signore con la giacca grigia: No, è solo che penso che lei abbia delle mani molto belle.
Hostess: Non c’è nulla di cui vergognarsi nell’avere paura.
Signore con la giacca grigia: Ma io non ho paura, e lei ha delle mani così belle.
Hostess: Viaggia per business o per piacere?
Signore con la giacca grigia: Cerco di allontanarmi da una situazione.
Hostess: Forse questa situazione la rende un po’ nervoso?
Signore con la giacca grigia: È una situazione che non mi piace, ma non mi rende nervoso. Vede qui, proprio sotto al mio anulare?
Hostess: Che cosa?
Signore con la giacca grigia: C’è un segno, dice che non sono fatto per le situazioni che non mi piacciono. Per questo me ne vado.
Hostess: Ma non è così per tutti?
Signore con la giacca grigia: Cosa?
Hostess: Nessuno è fatto per stare in una situazione che non gli piace!
Signore con la giacca grigia: Questo è un grande inganno, signorina. Quasi tutti sono fatti per stare in situazioni che non amano.
Hostess: Posso portarle dell’acqua, o una bevanda calda, che cosa ne pensa?
Signore con la giacca grigia: Penso che lei abbia delle mani molto belle e che dovrebbe venire via con me.



venerdì 2 agosto 2013

Cent'anni di morbidezza

L’amore è un po’ come la carta igienica.
C’è chi ne prende un pezzettino e, ripiegandolo diligentemente, se lo fa bastare. C’è invece chi l’amore lo stropiccia, lo accartoccia, ne prende a man bassa e non si cura di quanto ne resti, di quanto se ne butti.
C’è chi lo vuole dello stesso colore del tappetino della doccia e non gli importa se costa troppo o se gli irrita il sedere: l’esteta della carta igienica, quando ha un appuntamento, si veste di tutto punto e decide di non richiamare se lei è un po’ forte di coscia.

C’è chi ha la scorta nel sottotetto, non si può restare a corto di amore! C’è chi aspetta a comprarla finché non è finita anche quella del vicino di casa. C’è chi non spreca nemmeno l'ultimo velo sottile con gli avanzi di colla, chi resta a guardare attonito le piastrelle quando si accorge che non ce n’è più. C’è chi non butta mai il cilindro di cartone: lascia lì un amore sfinito e passa svelto a un rotolo nuovo. Chi ama il rischio, chi cambia sempre, chi si vergogna dei pacchi famiglia, chi lo ruba nei bagni dell’ufficio.

C’è chi acquista solo rotoli così lunghi che quando torna all’Esselunga non si ricorda in quale scaffale si trovano: zombie smarriti che cercano i Rotoloni Regina tra le videocassette TDK da 80 minuti.
C'è chi si sta godendo ancora, tutta, la pace bella degli amori lunghi, l'intimità rassicurante, la sensazione morbida che dà la speranza in qualcosa di cui non puoi intravvedere la fine. E c'è invece chi è rimasto solo e si chiede se ne è valsa la pena, ora, di fronte all'infinita pena dei fazzolettini balsamici usati in modo improprio, dei tovaglioli a quadretti, della carta casa con la ricetta della pappa al pomodoro arrotolata sulla manopola dello sciacquone, della prima pagina di Libero, della faccia greve di Berlusconi condannato che lascia tracce di rotativa sul sedere dello sciagurato.




venerdì 26 luglio 2013

Sei buoni motivi più uno per amare il caldo a Milano

Ieri, camminando per la città, ho fatto un elenco dei motivi per cui l’ondata di caldo a Milano è bella:
  1. Con questo caldo anche il microonde scalda l’ambiente domestico, quindi sei autorizzato a cenare con cinque fior di fragola senza sentirti in colpa.
  2. L’ondata di caldo ti obbliga a stare chiuso in casa (ufficio, centro commerciale, multiplex) di giorno e uscire di notte; così puoi scoprire un sacco di cose, tipo la storia di Vasilica e Oreste.
  3. Se sei una donna, ti puoi vestire come se andassi all’Aquafun, anche se sei diretta all’ufficio postale di via Sassetti.
  4. Se sei un uomo, no. 
  5. Puoi fingere di essere un avventuriere in missione nel Sud Est Asiatico: il clima è quello, solo un po’ più umido.
  6. Con questo caldo il cielo è un opale chiaro che trasforma in miraggio morbido  i palazzi di clinker, il cemento. E tu non puoi che guardarli, abbracciato a una luna molle, e amare tutto. Perché con l’ondata di caldo ci si concede l’esitazione, ci si permette di fondersi, tremare, sovrapporsi, dimenticare.
E non mi si dica più che sono pessimista, diamine: trovatelo voi un bicchiere mezzo pieno con la sete che gira, con tutta questa evaporazione.

venerdì 19 luglio 2013

La condizione dell'anatra

In questo giorno caldo e barboso, riprendo un post sconclusionato ma saggio, da leggere con indefessa attenzione, del dicembre 2010.
Siamo anatre o usignoli?



Quando leggi Internazionale, anche la situazione politica del Madagascar improvvisamente sembra importarti davvero. Poi non sempre riesci a leggere tutto. Ma spesso - come un silenzio impone il suo significato più di tanti discorsi - è proprio quel che non leggi a colpirti di più. Così, da un articolo che non ho letto, ho iniziato una serie di riflessioni.

La prima è una meta riflessione. Perché diamine non ho letto questo articolo, se le tre righe in grassetto a commento della foto in terza pagina mi hanno colpito così tanto?

La seconda è una risposta. Credo abbia a che fare con l'abitudine a internet. Attenzione ipertestuale: trovi una cosa interessante e la segui. Sta plasmando il modo di leggere, pensare, scrivere. Sono certa che ci siano studi al riguardo. Ora lo Googlo.

Per la terza aspetto qualche ora, nel frattempo faccio la ricerca, vinco per 6 a 5 a calcionelcorridoio e penso (senza successo) al regalo di Natale per l'amico che ha tutto.

La terza è: siamo anatre o usignoli? La frase che mi ha colpito dice, parafraso, che l'anatra nuota, vola e canta, ma non nuota come un delfino, non vola come un'aquila né canta come un usignolo. C'è chi è felice di essere un'anatra, sa fare tutto pur non brillando in nulla e chi, invece, è felice di essere un usignolo.

Il punto è che questo è un mondo per anatre. Le anatre si arrabattano. Sanno di non essere speciali in nulla, ma nulla sfugge loro: pescano, urlano, si nascondono tra i cespugli, controllano la mail, recitano a progetto. Si salvano anche alcuni usignoli fortunati che, catturati in gabbie dorate, sono liberi di passare la vita a cantare.
La maggior parte di loro, invece, canta a stento nel sottobosco e finisce in casseruola. Poi, certo, anche le anatre finiscono in casseruola. E i delfini nelle scatolette di tonno. E le aquile? Loro volano da un albero all'altro, regali controllano il territorio.
Sai che barba.

Mi sono dimenticata la quinta riflessione.


martedì 16 luglio 2013

Per nessuno.

Mio caro Jim,
vorrei dirti la verità, ora che è un tempo vuoto, dimenticato anche dai tuoi libri, dai ricordi.
Vuoi ascoltare questa canzone? Mi bracca da quando ancora non esisteva; correvamo insieme giù per le scale, lei era con noi: due note più su, un'ottava più in basso, non importa.
Caro Jim, non avrei voluto combinare tutti questi guai. Una volta mi hai chiesto perché ho preferito lui. Non ti ho risposto, ho solo dato un calcio a un sacchetto di cartone vuoto che ha fatto un giro molle e poi è subito tornato sul selciato. Sono stati così tutti i miei tentativi di dirti la verità: calci distratti che non vincevano l'aria e ritornavano, fiacchi, sulla terra.
La verità è che prefivo te, immensamente. Ti preferivo di un desiderio così forte che mi faceva piangere.Ti preferivo quando sono salita sul treno con lui, quando stavi zitto, quando mi facevi il solletico, quando tornavi. Sempre, ti preferivo sempre: il mio cuore trasaliva solo a immaginare la gioia di averti con me.
Hai ascoltato la canzone? Non ho preso il treno con te quella notte perché tu non c'eri.

Tua sempre
Catherine

















Leggi il racconto ascoltando Good for no one, di Herman Dune

giovedì 11 luglio 2013

Le kilojoule del male

Questo è recente. Uno degli ultimi. Forse si vede?
Era il 28 gennaio 2012.

C'è di sicuro uno studio di un'università di un posto che nessuno ha mai sentito nominare, in Texas o Nuova Zelanda, che dimostra che i muscoli del viso si affaticano il 37% in più per un broncio che per un sorriso.

Lo studio sarà stato condotto su un campione di mucche da latte, ma a nessuno nella redazione di Marie Claire importerà molto.
A loro interesserà il postulato secondo cui, per fare il broncio si spendono mediamente 16 calorie in più che per un sorriso. Solo dieci bronci e puoi mangiarti un Kinder Bueno. 


Ma a me interessa per un altro motivo. Quanta fatica ci costa essere infelici?
Dal broncio alla guerra, il male ha sempre avuto un prezzo più alto del bene. Quanto siamo sciocchi a non accorgercene. Quanto è sciocco non ridere, non amare.

lunedì 8 luglio 2013

Il senso degli altri

Bisogna ascoltare Paolo Fox, o Papa Francesco. Si dovrebbe dare retta agli altri. Tendenzialmente, loro hanno sempre ragione.
Gli altri non stanno lì a pensare con la tua testa, non vedono con i tuoi occhi, non sentono i brividi che senti, tu stesso, lungo la schiena o dietro alle cosce.
Gli altri non commetteranno mai i tuoi sbagli.
Ed è molto più facile liberarsi degli sbagli degli altri che dei propri.

giovedì 4 luglio 2013

Il dodici del mese

Usciamo dalla Galleria, tu mangi il gelato, io ti guardo da sotto il tuo braccio: la camicia bianca un po’ appiccicata, una macchia di cioccolato, un baffo. Il caldo sale dal selciato. Te lo tolgo con un dito e  la prossima volta, giuro, sarà con un bacio.
Poi ci sono gli altri.
C’è il signore con il loden che tiene un cagnolino piccolo a un guinzaglio lungo, la donna sui tacchi che si chiude nella sciarpa fatta a mano, un tram verde, lontano, da cui è scesa una scolaresca che cammina ordinata verso l’entrata della chiesa. C'è un vigile seduto sui gradini e dico forse non potrebbe e tu dici forse è in pausa, guarda come fissa il cartellone del Martini, la mortadella.
Mi hai regalato dei sandali piatti, l’altro giorno, per la festa del tuo compleanno. Sono comodi e sono comunque più alta di loro, di tutti. Tu sei un gigante che ride e indica un’insegna colorata. Poi sentiamo un botto, il cane abbaia, il vigile corre, i bambini nella chiesa non fanno nulla. E noi siamo gli unici che non sentono freddo, guardando verso piazza Fontana.

giovedì 27 giugno 2013

Lettera, febbraio 2012

Quando finisce una raccolta, si fa sempre festa. Almeno così mi hanno insegnato al Leoncavallo.
Oggi ho finito di raccogliere tutti i vecchi post perduti. E pubbblico l'ultimo, che è un po' triste ma fa niente, tanto piove, va così. (era febbraio 2012)


Pensavi ti avessi dimenticato. Un po', forse; cercavo di non guardare la tua finestra, passando. Cercavo di cancellare i sogni. Ma è proprio in un sogno che mi è arrivato un pezzo di una tua orecchia, un giornale sgualcito con una data di dieci anni fa. Urlavano che mi ascolti, che le tue notizie lontane hanno bisogno delle mie parole. E io di te.

Ne ho combinate un po'. Sciocchezze, soprattutto. Come quando scappavamo insieme per parlare di politica, di palloncini colorati che avrebbero sollevato montagne.  L'altro giorno ho rivisto la tua montagna: ci hanno piantato una bandiera sopra e, vaffanculo, mi è sembrato un insulto.
E ho sentito che ero io a insultarti. Con le mie bandiere piantate e lasciate a bagnarsi sotto la pioggia, con le mie corse per timbrare il cartellino, le mie dita puntate sul mappamondo e i miei piedi a bagnarsi nelle pozzanghere. Con i miei biglietti del treno, i desideri obliterati, il sonno dimenticato con la raccolta differenziata sul terrazzo, a gelare.

E' inutile che tu mi chieda "gli altri, gli altri come stanno". Non li ho più sentiti e non li ho sentiti perché saremmo scoppiati in un pianto: troppi problemi a diventare grandi, troppe collezioni di dischi vendute, troppa tenerezza ancora lì a cercare il suo sfogo. Basterebbero le loro voci, le nostre, a farci capire in un istante dove siamo e perché tu non ci sei.

Capisci, vero? Non è ancora tempo di piangere. E' tempo di ingoiare e sorridere, ignorare le nubi, provare a soffiarle via. E' tempo di convincersi che la strada è quella giusta, cantare che andrà tutto bene, che tornerà il sole ocra di Cannes. E torneranno i baci, le urla contente, le ginocchia sbucciate, le caramelle; torneranno i sogni leggeri, il rock and roll, torneranno le stelle. Che quelle, forse, non se ne sono mai andate, che ci aspettano calme dietro al freddo dei lampioni, nascoste dai fumi grigi dei bar, dai nostri Rayban rigati messi sulla testa per scostare i capelli, da te.

martedì 25 giugno 2013

Che domande!

Peter: Lupo, che cosa sono le domande?
Lupo: Credo siano semplicemente la ricerca di risposte.
Peter: Quindi a ogni domanda corrisponde sempre una risposta.
Lupo: Sì, Peter.
Peter: E quando non sai la risposta?
Lupo: Qual è la capitale dell’Ecuador?
Peter: Non me la ricordo.
Lupo: Però l’Ecuador ce l’ha una capitale, no?

Peter: E tutte le risposte hanno una domanda?
Lupo: Anche più di una, è questo il problema degli uomini: trovare le domande giuste.
Peter: Pensavo che fossero più importanti le risposte.
Lupo: Le domande giuste e le risposte vere.
Peter: Quito.
Lupo: Cosa?
Peter: La capitale dell’Equador. È Quito.

Lupo: Sai che cosa mi ha detto una volta una persona? Che le domande che contano davvero sono quelle a cui puoi rispondere solo con la verità.
Peter: Questa è difficile.
Lupo: Sì, Peter, questa è un po’ difficile.



martedì 18 giugno 2013

Tre cuori

Lunga. Se devi trovare un aggettivo per descriverla, è "lunga". Gambe lunghe abbronzate su una faccia che resiste alla frangetta, semplicemente lunga. Assomiglia a Charlotte Gainsbourg, gli occhi dimenticati nel portapillole sul comodino.

Lui è largo. Orizzontale, diresti, con quegli occhi tagliati di sbieco. Gli cadono di lato due ciocche nere: indicano le spalle dritte, appoggiate appena su quelle di lei. Vorrei conoscerti meglio, le dice baciandole i lobi delle orecchie. Lei tace, sorseggia vino bianco e fissa il fermacarte a forma di piramide sul tavolino di fronte.

L’altro è sbieco, con una barba mal fatta, troppo alto, troppi nodi tra i capelli, nelle articolazioni. Porta il vassoio in modo traballante, una birra enorme per lui, un altro bianco per lei. Lo distrae una parola lontana, la tua battuta che mi fa ridere, sua sorella, gli occhi di lei che per un momento ritornano, incollati sul bicchiere e poi densi verso quelli dell'altro. E tutto riprende forma.

Asolta i suoi consigli sulle vacanze, parte la musica, passa uno straccio sul tavolo a fianco, si alza per andare in bagno. Noi che ridiamo, il cantante che parla, lui che si tocca le ginocchia, lei che non torna. E l'altro. Lo ha cercato per non trovarlo: è dietro al bancone che ripulisce le gocce perse di un Campari, ed è pericolosamente vicino al suo collo.



mercoledì 12 giugno 2013

Nell'erba

Hai presente quei momenti in cui senti una canzone dentro di te ma non ne sai il titolo nè l'autore; hai una vaga melodia in mente, forse due o tre parole, ma nulla che ti aiuti a identificare la canzone. Eppure sai che esiste, sei certa della sua esistenza più di quella della delle zanzare d'agosto ai navigli?

Certo. Come l'amore.

Esatto, così mi sento. Proprio così.


lunedì 10 giugno 2013

Altalena

Nano: Mi aiuti a fermarmi? Sono stanco.
Ballerina: Basta che appoggi i piedi a terra, Nano.
Nano: Non vedi che non posso?
Ballerina: Certo che puoi, quante volte te l'ho detto.
Nano: Dovresti smetterla di dirmi cose che non capisco. Le ballerine sanno contare fino a otto, mettersi i cerotti e macchiarsi di rimmel se nessuno le vede.
Ballerina: Si dice mascara, Rimmel è una marca. 
Nano: E allora la canzone, quella dei quattro assi?
Ballerina: L'ha scritta un uomo.
Nano: Fammi smettere di dondolare.
Ballerina: Sto mangiando, non mi va di alzarmi.
Nano: Ballerina, secondo te perché continuo a farlo?
Ballerina: Fare cosa?
Nano: Insomma, come faccio a smettere?
Ballerina: Smetterai di farlo quando smetterai di farlo.
Nano: Ma fare cosa?
Ballerina: Quello che avevi in testa tu!

Ballerina: Dai, ti aiuto, dobbiamo tornare.
Nano: Forse devo prendere una decisione.
Ballerina: Forse sì, ma solo se è quella giusta.


To forgive and forget

Luglio 2009. Perdona e dimentica, ma ricordati di farlo, prima!


Un feto di 34 settimane può ricordare per 4 settimane. Il che è molto meglio di quanto siano in grado di fare molti dei miei amici di 30 anni.
E se lo sviluppo emotivo dell'uomo medio si ferma ai 4 anni, da oggi so che quello mentale si ferma -0,6 anni.
Dovremmo pensare bene a questa cosa, noi donne, quando ricordiamo tutte le date e i colori delle maglie e il motivo del primo litigio e dove hanno messo le loro scarpe da calcetto. Guardiamo avanti, immaginiamo invece che ricordare, viviamo piuttosto che rimuginare.

Dimentica e immagina. Dimentica e vivi. Perdona e dimentica.

mercoledì 5 giugno 2013

Domande universali

Una mente razionale deve fondare le proprie decisioni sulla potenzialità o sulle probabilità?

Immaginatelo un po’ come vi pare. Possono essere i marziani, dio, l’inconscio collettivo, le grandi corporation o nonna Luigia: l’universo ci manda messaggi.
Gli astrofisici hanno ragione: se l'universo non è vuoto, è sicuramente molto molto vecchio, perché le sue parole sono ripetizioni testarde, sussurri con l'eco. In questi giorni, in particolare, sembra un assicuratore testardo che continua a martellarmi sull'importanza di pensare, ora, al mio futuro.

Tutti dicono di non crucciarci troppo di quel che sarà, ma è anche vero che il futuro è retroattivo: dobbiamo dedicargli un po’ di cura, non tanto perché prima o poi arriverà (d'accordo, non è detto, ma stringiamo il cornetto rosso e fidiamoci di lui almeno per le prossime dodici righe), ma piuttosto perché la predizione, la progettazione e la preparazione del futuro sono elementi solidi del nostro presente. La vera domanda non è Cosa possiamo aspettarci dal futuro, ma Come dobbiamo affrontare il futuro nel presente?

A questo proposito l’universo, vuoto e bipolare, continua a mandarmi messaggi contrastati. Nonna Luigia mi dice Olivia, immagina il mondo alle sue massime potenzialità e fatti guidare da questo sogno. I marziani, dal canto loro, suggeriscono di basare le mie scelte sulle probabilità più che sulle potenzialità.


Credo abbiano ragione i cosini verdi: di fronte a un’evoluzione con una potenzialità altissima ma molto poco probabile, è più saggio cambiare strada e dirigersi verso qualcosa di più solido o realistico. 
D’altro, sarà d’altro, come prima dei suoi baci. Una mente razionale deve fondare le proprie decisioni sulle probabilità. Detto fatto, Pablo.

È anche vero, del resto, che non sapremmo mai quanto sarebbero stati sublimi quei baci se in passato non avessimo lanciato i dadi tremando ciechi sul bordo del precipizio.

lunedì 3 giugno 2013

Archetipi

Era il maggio del 2008. Posso dire, ora, con certezza e gioia, che il mio stereotipo ormai l'ho abbandonato.
Non ho risolto tutto, credo. Ma succederà mai? E anche il quel caso, siamo sicuri che sarebbe una buona cosa? Che sarebbe divertente?
 
Noti anche come fissazioni o monomanie, gli archetipi di cui voglio parlare ora sono quei comportamenti o modelli "mitologici" che, profondamente, ci spingono sempre nei guai e sempre, più o meno, nello stesso modo.
Nel mio circolo di conoscenti, gente piuttosto sana e che comunque gode ancora pienamente dei diritti politici, posso trovare un'esaustiva parata di archetipi di ogni foggia e modello. Andiamo dal classico "mi innamoro sempre degli uomini delle altre" (o di musicisti tossicomani) al "io li aiuterò a scoprire il loro vero io" (che spesso si chiama Priscilla). C'è quello che si innamora solo di donne in menopausa, quello che si trova tra i piedi solo fanatiche di pratiche che terminano in -ing. Chi si è fatto qualcuno almeno in ogni continente e chi si mette solo con chi ha venere in acquario.

Il punto è che cosa ci rende veramente felici. Assecondarli?  Comprenderli e introiettarli sviluppando in noi stessi quel mito mancante che andiamo a ricercare nelle relazioni con gli altri? Distruggerli per liberarci dei condizionamenti e vivere davvero secondo la nostra natura?
Ma cosa resta della nostra natura se liberata dai modelli che ci rendono così veramente "noi"? Siamo sicuri che senza il nostro dispettoso archetipo non finiremo con il lottare (o diventare) con uno sbadigliante stereotipo?

venerdì 31 maggio 2013

Il coraggio di desiderare


È fiorito il calicanto, è fiorita la magnolia e dopo il ciliegio. Sono fiorite ad una ad una tutte le siepi di gelsomino della città; la pioggia continua a cadere e ne scioglie il profumo per le strade.


Ho fumato la mia ultima sigaretta l'altra sera. Dici Non hai mai fumato, dico Le metafore, dimentichi sempre le metafore.

Non so come farò senza, pensavo guardando il filtro sporco di tutto quel rossetto sprecato. Le altre volte sono state un disastro. Anche ora, ma adesso tu non taci; ora mi accarezzi come se avessi una pelliccia morbida e mi preghi di avere il coraggio, anche per te, di desiderare.

Dimenticherò il suo odore quando si avvicina alla bocca e andrò in giro per le strade a cercare il profumo del prossimo fiore.

Viviamo di dipendenze finché non ne moriamo.
E poi finisce che si muore comunque. 
Ma liberi.

Non posso contraddirti. La notte si fa fredda, ma tra poco fioriscono i papaveri, fioriranno i cactus e ancora, meravigliose, le ultime rose.

mercoledì 29 maggio 2013

La torre

Un tempo scrivevo di tarocchi. La torre, ecco, della torre non mi pare di aver mai scritto. Vertigine e sepoltura, botta e caduta, chi butteresti dalla torre?, l'Irpinia, il Carso, il turista cinese che la regge con il braccio, il film a cui ti sei addormentato, il libro che era meglio, molto meglio.
Si parlava di torri, oggi, come se le scelte fossero tutte drastiche e le opzioni semplici, finite. Si parlava di sesso e amore: scegli tu, uno dei due per sempre. Sembra orribile. Invece no, non è orribile per niente. La cosa difficile delle scelte è scegliere. Se una scelta è per sempre, se le opzioni si escludono a vicenda, allora dove sta la difficoltà? Basta scegliere.
La cosa che spaventa della torre non è cadere, è decidere di buttarsi. E' il timore di perdere le opzioni che ci imprigiona. Solo che una volta fatta la scelta, perdiamo un'opzione, ma ne creiamo infinite altre. E' questo l'insegnamento della torre: se salti non perdi, se salti crei.
Insomma, Misery deve morire.

venerdì 24 maggio 2013

Love will

Non scrivo da un po' e infatti sono di pessimo umore. Oppure sono di pessimo umore perché non scrivo da un po'. Qualche giorno fa era l'anniversario della morte di Ian Curtis. Ho ritrovato questo, deprimente quanto basta per non sentirsi scollegati dal tempo. Metto l'inizio, chi ha voglia di leggere il resto, può chiedermelo sulla mia pagina Facebook.


Love will tear us apart
 
Il 18 maggio 1980 muore il cantante dei Joy Division. È un suicidio, Ian ha 23 anni. Lascia moglie, Debbie, una figlia e un’amante.


“Nat, lascia in pace quel cane. Nat, vieni, su”.
La bambina ha circa sei anni. Gli occhi di suo padre, i capelli della mamma, ma lisci. Nathalie è una bambina serena, alla fine di agosto inizierà la scuola, ma per ora non si fa troppe domande: guarda il mondo, gioca con i suoi colori e i suoi versi. Debbie pensa che, grazie a dio, questo è un buon segno. Troppa introspezione è un rischio. Troppa solitudine un danno.  Non pensa troppo, continua il cruciverba. Aspettano David, passerà a prenderle per portarle a mangiare un hamburger e poi casa, nanna. Un buon segno.

“Hai una bambina molto bella”.
La sconosciuta ha una sciarpa viola. Il suo colore preferito. I capelli lunghi, un po’ troppo per essere alla moda. Un cappellino, un basco, colorato. È giugno, ma sente freddo e sotto porta solo un vestito di mussola e una maglietta presa un paio di anni prima durante una vacanza a New York.

“Oh, sì, è adorabile”.
“Vedo che le piacciono gli animali”.
“Sì, vorrebbe un cane, ma gli animali hanno bisogno di cure e lei è ancora piccola”.

Debbie non si volta. La sconosciuta non ha un accento del posto, ma non saprebbe dire di dove sia, anche se le vocali appena accennate e una tonalità che cresce sempre alla fine della frase le ricordano qualcosa. Continua a tenere d’occhio Nat, mentre la sconosciuta le si siede di fianco.

“Inizierà la scuola quest’anno, vero?”.
“Sì. Andrà alla Saint Marie, è vicina a casa ed è una scuola piuttosto buona, ma quando sarà più grande vorrei che andasse a Manchester. O a Londra, chissà”.

Osserva solo un po’ i ricami del vestito leggero, e la sciarpa di cotone che le ricade sulle cosce. Appoggiata, una borsa di cuoio, sembra costosa: strana donna.  Deve essere nuova, pensa Debbie, forse la moglie di uno di quei dirigenti assunti da poco alla Carson.

“Lei è nuova di qui?”.
“Di passaggio”.


(continua)

venerdì 17 maggio 2013

Venerdì 17 (The best of Thank God it's Friday!)

Questo è un vero Amarcord. Chissà quando era. Tipo il 2009? Sì, tipo. Aspettavamo il venerdì non per l'inizio del weekend, ma per la raccolta dei momenti divertenti della settimana. A molti sembreranno proprio senza senso, ma ci sono due tre persone a cui so faranno scappare anche una lacrimuccia.
Ragazzi, thank God it's Friday!


Cul de sac
- Udio, questo è un vicolo cieco
- Si sarà fatto troppe seghe.

Tristezza, per favore vai via
- Ma a voi capita che di punto in bianco... così, senza motivo apparente...
- Di venire?
- No! che d'improvviso vi viene su una tristezza infinita, come da sentirsi zuppi di tristezza?
- Mmm... no, di solito io ho sempre un sacco di buoni motivi per essere triste.

Rivoluzioni ideologiche
- Lo so, lo so sembro un libro di Jane Austen.
- Con lui che ti segue in terrazza sembra più un film anni '50.
- Già qualcosa: vuol dire che mi mancano solo 20 anni alla rivoluzione sessuale.

The ugly truth
- Oh comunque oggi non passa un cazzo.
- Nel senso del tempo, eh!

Verità incontestabili
- Qualunque obiettivo fosse, l'abbiamo raggiunto.

E' un lavoro sporco, ma qualcuno deve pur farlo- Quindi dobbiamo chiamare per chiedere se l'acqua calda è calda?
- Esattamente.
 ...
- Ma poi hai chiamato?
- Sì.
- E quindi?
- L'acqua calda è calda.