lunedì 29 dicembre 2014

Sai tenere un segreto?

Ultimamente mi sono trovata a riflettere sui segreti. Non sono un tipo che ha molti segreti. Come diceva Marquez? Vivere per raccontarla. E' uno dei miei difetti: appena la so, quando la vivo, ecco che la racconto. Perciò, mi spiace, ma non sto per rivelarvi chi è il vero padre di Rick Forrester o che cosa ho fatto, veramente, l'altra sera (anche perché, siamo onesti, non ne ho la più pallida idea).

Vorrei parlare, piuttosto, del ruolo che hanno i segreti nel definire la nostra personalità e il nostro modo di interagire con gli altri. Roba tipo yin e yang. Tendiamo a definirci attraverso ciò che è visto, fatto, agito. L'effetto dell'azione sul mondo esterno o, meglio, il fatto che un osservatore sperimenti gli effetti della nostra azione ci rassicura sul fatto che esistiamo, che "siamo", in un certo modo. E così raccontiamo, compriamo un certo tipo di abiti, dichiariamo guerre, acquisiamo società, salviamo i lebbrosi. E pensiamo che questo ci definisca come scrittori, fighi, statisti aggressivi e un po' avventati, manager senza scrupoli, suorine caritatevoli. E va bene: siamo ciò che facciamo. Ma è sufficiente?

Se invece fossimo, ancor di più, ciò che non diciamo, non facciamo, non osiamo? Guardo un passante e provo a indovinare tre cose che "non" è. Non è uno statista aggressivo (mica porterebbe a spasso il cane in pigiama, di lunedì), sicuramente non è una suorina caritatevole o una fashion blogger (vedi parentesi precedente), sono anche certa che non sia mio cugino Giovanni. Se metto insieme cento "non è" posso definire un ritratto molto più preciso del signore con il cane rispetto a tre semplici "è". Un po' scomodo, ammetto, ma vero.

Ecco perché ho deciso di iniziare a dare molta più importanza alla massima espressione di ciò che non si è, fa o dice: i segreti. Piccoli peccati mai confessati, desideri profondi che si spaventano alla sola idea di non essere capiti, eventi che non accettiamo o che sappiamo che nessuno accetterebbe, gioie così forti che dirle proprio no, non si può.

E non me ne voglia Marquez, ma ho deciso che per un po' voglio provare a vederla così: se non racconto una cosa, è perché è sto aspettando che diventi ancora più preziosa. Se non me la dici tu, è perché magari hai solo paura che preziosa, per me, non lo sia affatto. E se non ti chiedo di dirmelo, il tuo segreto, è perché forse sto aspettando di essere abbastanza preziosa per ascoltarlo.

Nel frattempo, vi invito a leggere queste e altre cose su PostSecret.com: si impara molto dai segreti degli altri.


martedì 9 dicembre 2014

Racconto dell'acqua

Un racconto Amarcord, ottobre 2010



Se sei di ghiaccio, io mi faccio roccia. Diventa neve e sarò sabbia che scivola.

Lo vedi il mare, laggiù? Spuntano bottiglie di birra come uova di tartaruga. Mi piacciono le spiagge in inverno: ho una foto con un pupazzo di neve che dà le spalle alla marea.
Non fanno falò, qua, come a Seaside: non c’è bisogno. Una volta hai fatto il bagno ed era gennaio. Per anni ho pensato fossi folle, ma è solo che non la conoscevamo ancora, la follia. Buttarsi nell’acqua gelata da un picco alto, con il cappotto.

Sul lungo mare c’è un ristorante ancora aperto: la luce al neon pulsa azzurra come la mia palpebra stanca. Sembra l’insegna di un centro massaggi.
Me lo faresti ancora, tra il collo e le spalle? Riuscirei a non diventare ancora più dura, estensione secca della sedia della tua cucina? Riuscirei a non girarmi per darti un bacio?

Dicono ci sia una risposta scritta con l’Uniposca sulla porta della cabina numero 7.
Controlleremo. Io sto passando sotto la mia mola di pietra, mi faccio sabbia. Ci serve quel tempo, quello che scioglie, per portarci al mare. Ma tu fatti neve, verso di me, e io sarò sabbia.

E poi saremo acqua.

lunedì 1 dicembre 2014

Ho fondato una religione

Hai una vita di merda? Hai commesso errori di cui ti sei pentito e che ora hanno segnato in modo indelebile la tua esistenza? Non hai più nessuno per cui valga le pena lottare?

Tutti ti dicono che puoi ancora cambiare la tua vita.  Magari è vero.  Ma poi sei sicuro che non sarai troppo vecchio e stanco per goderne i benefici?
Riflettici. Ti sembra dignitosa la vecchietta che volteggia sulle parallele con il body?



Se anche tu hai risposto sì a tutte le prime domande e no alle ultime due (ok, prenditi un minuto per tornare indietro a contarle), allora sei pronto per entrare nel Movimento DSG. No, Civati non ha fondato il nuovo partito dei giovani democratici di sinistra. Parliamo del nuovo movimento per la promozione e lo sviluppo del Dignitoso Suicidio Giovanile

Nella tua nuova vita avrai modo di ripercorrere ogni istante: i tuoi primi passi, la scuola. Potrai scegliere se fare danza o suonare il violino. Deciderai che è meglio non fidanzarsi con quel ragazzo troppo timido, che val la pena rinunciare a un comodo Ektorp bianco in Via Vigevano per un materasso poggiato in terra in una fredda casa di Londra (dove troverai un amore che non ti lascerà mai, o più probabilmente una famiglia di scarafaggi).

Non farai lo stronzo, non sarai tu la stronza. Non lo tratterai male, proprio lui che ti amava tanto. Lo tratterai peggio, magari, e poi benissimo. Avrai la forza di resistere perché sai com’è non averla avuta. Troverai il tempo di leggere e il coraggio di passare un martedì mattina a casa a fare l’amore.

Avrai ben chiaro che un 7 in filosofia vale più di un 9 in chimica, e così studierai di più e lavorerai meglio. Non manderai a quel paese il tuo capo, saprai farti valere a quel colloquio. Chiederai l’aumento. Te lo meriterai. E poi lascerai tutto per una cosa migliore, affronterai la paura di cambiare, ma anche il traffico del mattino. Non dico con un sorriso, ma almeno senza tirare in ballo troppi santi.

Non dirai tutte quelle cazzate, mangerai meglio e porterai tua moglie fuori a cena più spesso. Non perderai tutto quel tempo. Capirai subito quando una cosa è inutile, conoscerai già le risposte e sarai sempre in grado di trovarne di migliori.

Andrai a lavorare all’Onu, sarai il miglior pescatore di telline della storia e non lascerai mai perdere un’occasione per rendere orgoglioso tuo padre o tua figlia, o te stesso. Non avrai nulla di cui vergognarti e se anche solo per errore ce l'avessi, non avrai tempo di farlo. La tua vita sarà una tavolozza di colori pronti a decorare il soffitto della Cappella Sistina. Sei pronto per essere il tuo prossimo capolavoro?

Ecco, se hai risposto sì a quest'ultima domanda, allora non aspettare. Vieni a trovarci nel nostro centro più vicino a casa tua. Come ha detto una volta un burlone: "Nessuno è mai tornato indietro a lamentarsi"

martedì 25 novembre 2014

Indian Summer

Ti ho promesso un'altra lettera, giorni fa: erano i tuoi giorni, quando il primo freddo sembra cedere a un'estate improvvisa. Ci illudiamo così in queste estati di San Martino: slacciamo i primi bottoni della giacca, ci guardiamo sorridere nelle pozzanghere quasi asciutte, coi piedi caldi e le mani che si incrociano nelle tasche a sperare che non passi.

E' stata la stessa cosa per Lui. Era la stagione che andava per la sua strada senza chiedere nulla, governata dalla forza di pianeti lontani. Potevo aspettarmi qualcosa di diverso? Era tutto pronto, le calze pesanti, un maglione caldo, la quieta sicurezza della pelle nascosta sotto strati di affezionate consuetudini, di sacrifici diventati dolci, parole di marmellata a coprire il desiderio.

E' successo tutto in un giorno. Il calendario della città di Milano copriva a metà la faccia del venditore di souvenir: stava ignorando un piccolo uomo asiatico e io aspettavo Lui contando i giorni come un mantra, con il fumo delle caldarroste che mi arrossava gli occhi e i capelli che si appiccicavano tra il collo e la sciarpa.
"Caldo, eh?'" mi ha detto arrivando da dietro, senza salutarmi; portava una maglietta con le maniche corte, il maglione di lana al collo come sciarpa.
"Chi se l'aspettava".
"E' questo il bello" guardandomi come se non si stesse riferendo solo al tempo.
"Sei in ritardo".
"Fatti abbracciare".

Mi sono aggrappata alle sue braccia infilate sotto la mia giacca aperta, inutile, come ci si aggrappa a un raggio di sole ritardatario a metà dell'autunno. Ho iniziato a respirare dal suo petto mentre mi baciava la testa e quando l'aria è finita ce la siamo divisa succhiandola l'uno dalle labbra dell'altra. Come se non avessimo mai fatto altro, come se non esistesse altro modo. Abbiamo dimenticato le stagioni, la sveglia, le code agli sportelli, la folla nella metro. I telefoni hanno smesso di suonare, a un certo punto, ma il sole continuava a sorgere e noi ridevamo, ignorandolo.

E poi lo sai come è andata a finire: mi sono dimenticata di scriverti. Siamo rimasti per giorni senza aprire gli occhi, mangiando uva e speck dalle buste, finché è iniziata la pioggia.
E adesso torno da te, ti saluto dall'ombrello, quasi calma, quasi felice. Ho indossato un piumino per attutire l'impatto con il mondo, non si può lottare in eterno.
Scrivimi presto.







lunedì 3 novembre 2014

Personalità luce

"Non guardare te stessa con i loro occhi, o avranno vinto loro. Perché siamo ciò che vediamo".
Non è una citazione precisa (Jennifer Egan - Guardami). Sto leggendo questo libro e ho appena visto una di quelle immagini con scritta su Facebook e bum! mi è venuta voglia di scrivere di identità.

La frase su Facebook diceva che le persone non cambiano, è solo che a un certo punto calano la maschera.
Nel libro, un grande romanzo sull'identità, la protagonista parla spesso della personalità ombra dei personaggi che incontra. La personalità ombra ha sempre qualcosa di inquietante: è quella parte di noi che nascondiamo nelle comuni interazioni sociali, o nelle relazioni. Il nostro vero io? No. Non è l'essenza che nascondiamo agli altri, è solo una parte di noi, fortemente nostra, che però non mostriamo. Come la fodera di un cappotto. Il rovescio di un giubbotto double face che portiamo sempre in un verso solo. Ma ogni tanto arriva una folata di vento e il cappotto si apre mostrando la fodera di seta grigio scura, l'etichetta nascosta, la fantasia a quadretti che non ci piace tanto o che vogliamo tenere lì, nascosta e pulita, per farla vedere in occasioni migliori.

Nel romanzo Charlotte, la protagonista, si esercita a riconoscere questa personalità ombra negli sguardi, nei dettagli di una cicatrice o un tatuaggio, nel modo di camminare. Riconosce, e anticipa, nella camminata goffa di un ex bambino obeso i tratti di caparbio cinismo di un personaggio animato da freddo bisogno di affermazione e rivalsa. Vede lo sguardo di un assassino e chissà se questo poi, davvero, le farà del male.
Ora mi chiedo. Deve sempre essere brutta, negativa, antisociale la nostra personalità ombra? E' vero che la nascondiamo per essere sani individui in società. E se non fosse sempre e solo così? Se la parte di noi che nascondiamo dal macellaio, ai colloqui di lavoro o mentre giochiamo con i nostri figli fosse invece la nostra personalità luce

Se Charlotte si esercita a trovare la fodera scucita, io voglio esercitarmi a trovare il prezioso ricamo in seta. Voglio trovare l'amore che non si sa affrontare, il talento che ci si vergogna a raccontare, la forza che si lascia lì a riposare perché è più facile così.
Si ha troppa paura del bene. 

Grazie a Wasted Rita - una grande giovane artista.


mercoledì 29 ottobre 2014

Hai presente un tesoro?

- Hai presente un tesoro?
- Certo. Monete, pietre preziose, gioielli.
- Ecco, è come se tu girassi per l'Isola del Tesoro con un sacco di monete d'oro in mano e improvvisamente ti imbattessi in un baule pieno di meravigliose ricchezze.
- Figo.
- Certo. Solo che tu invece di chinarti a raccogliere il tesoro giri i tacchi e te ne vai.
- Sono un coglione.
- No, ci sta. Magari il baule pesa troppo. E' che nel girare i tacchi lasci cadere anche il sacco di monete.
- Ecco, così sono un coglione.
- Sì. Ma sai cosa è peggio?
- C'è di peggio?
- Sì. 
- Tipo che faccio la cacca sui dobloni prima di andarmene?
- Qualcosa del genere. Qualcosa del genere.

martedì 28 ottobre 2014

All you need is love, o come trarre inaspettati insegnamenti dalle perdite in casa


Ho già scritto, tempo fa, di come ci siano poche giornate davvero significative in una vita. Due? Sette? Allora ci dobbiamo accontentare dei momenti significativi: quelli in cui una verità ci si svela sotto forma di piccoli eventi quotidiani che solo apparentemente sono uguali a tanti altri.

Questa mattina ho avuto in dono uno di questi momenti.

In questo periodo sto ospitando una giovane donna. Quando mi sono svegliata, come al solito, la prima cosa che ho fatto è stata andare in cucina a preparare il caffè. Avvicinandomi al lavandino, ho notato che la cucina era allagata. L'ospite, tra le mie imprecazioni e gli scongiuri su una possibile perdita della caldaia, mi dice che, certo, se ne era accorta: anche lei, poverina, si era inzuppata il calzino prendendo la tazza per il suo latte e cereali. Eppure non ha asciugato l'acqua e non mi ha detto, vedendomi apparire come uno zombie dalla porta della mia camera: Attenzione c'è un Vajont nel lavello della tua cucina.

La mia irritazione è stata minima. Da una parte perché comprendo la fatica, data la giovane età, di vedere il mondo come un luogo noioso, governato dalla legge causa-effetto e dal principio giuridico di responsabilità penale personale piuttosto che come un favoloso mondo magico dove i calzini passano in autonomia dal pavimento della camera alla lavatrice fino a tornare, accompagnati dal profumo di Lenor, nel cassetto. Dall'altra perché le voglio così bene che non mi sarei arrabbiata nemmeno se avesse organizzato uno schiuma party nel mio soggiorno. Anzi.

Questo piccolo evento è stato significativo in due sensi.
Il primo è che ho capito che questa persona, nella mia vita, ha un importante ruolo, quello di allenarmi alla gestione, o quanto meno alla tolleranza, di un uomo in casa. Perché una tardoadolescente ancora semiaddormentata, ho capito oggi, è esattamente come un uomo. Solo che lei impara.
Ringraziatela, quindi, uomini. Se fra sei mesi la mia casa sarà un tempio di amore e tolleranza, sarà prevalentemente grazie a lei. Io sarò solo la vestale che si occuperà di essere felice lì dentro, sforzandomi di rompervi le palle il meno possibile mentre evito il presentarsi di gravi incidenti domestici.

Il secondo è un po' più filosofico.
Il Vajont nel lavandino smette di esistere se io lo ignoro? Nello studio della relazione ontologica tra oggetto e soggetto, credo che i filosofi, nei secoli, abbiano sottovalutato la questione delle perdite d'acqua dalle caldaie. Nella vita personale e in società, un oggetto non smette di esistere solo perché lo ignoriamo. Possiamo fingere di non vedere il nostro vicino di casa antipatico, ignorare le notizie sulla Siria o non scendere in piazza in favore dei matrimoni gay e continuare comunque a sentirci dei cittadini decenti. Ma ci comporteremmo ancora così se incontrassimo il vicino mentre sta avendo un infarto, o se il nostro migliore amico fosse gay o fossimo innamorati di una donna di Aleppo?
Insomma, il soggettivismo funziona finché si tratta di una relazione individuale, semplice, tra oggetto e soggetto. Ma il mondo è una rete di relazioni complesse e se abbiamo tutta la libertà di ignorare il nostro bene, nessuno ci autorizza a ignorare il bene altrui.
E qui arriva l'amore. Perché solo l'amore ci apre gli occhi sugli altri: se vuoi essere una buona persona, in fin dei conti, devi amare. E se ami, il Vajont non lo ignori, perché amare è anche, almeno un po', una questione di responsabilità.

Fonte: This isn't happiness






Giorni speciali

Oggi ho pensato di scrivere un post che mi ha ricordato questo, del diciassette dicembre 2009.
Ne sono passati, di giorni speciali, sotto i ponti.

Ci sono davvero pochi giorni veramente importanti nella vita di una persona. Tre, cinque? Sette al massimo. Lo sappiamo. Ma allora cosa ci spinge, ogni giorno, a cercare un indizio, un lampo, l'incontro con una novità o il gioco a rimpiattino con una sorpresa?

E' che ogni giorno può essere buono, è che non sempre ce ne accorgiamo.
A volte i giorni diventano importanti postumi, a volte in contumacia.

Oggi forse è uno di quei giorni. Diciassette Dicembre.
Suona anche bene.


martedì 14 ottobre 2014

A volte è il caso.


A volte è il caso. A volte è la pazienza.

Una volta mi sono innamorata di un uomo che scendeva da un taxi: non parlava la mia lingua, ma portava un bellissimo cappotto blu. Aspettavo un'amica fuori da un bar, si congelava, ma non volevo entrare perché c'era un altro bar di fianco e non ricordavo bene in quale, dei due, avessimo alla fine deciso di incontrarci. Lui era in ritardo per un appuntamento perché gli si era rovesciata una bottiglia di profumo nella valigetta. L'aveva comprata per la moglie che stava per lasciare.
Si perde molto prima l'amore dell'abitudine.

Un'altra volta erano dieci anni. Conoscevo ogni centimetro delle sue paranoie, anche se non avevo mai sbirciato nel suo armadio e non aveva trucchi da prestarmi. Parlavamo di filosofia e amore e ricette per il welfare. Non mi piaceva, non mi piaceva per niente. Un giorno eravamo in un negozio: si metteva maglioni orrendi e non potevo permettere che uscisse, conciato così, con la più bella del corso. Ma con la più bella, si scoprì più tardi, non ci doveva proprio uscire e il suo maglione peggiore era caldissimo e il suo caffè a letto, il giorno dopo, il più dolce che avessi mai assaggiato.
Un'abitudine, quando la perdi, lascia uno spazio che non potevi immaginare.

Ecco, non so perché mi tornano in mente queste storie. Però è qualche giorno che penso che va bene il caso, ma a volte una cosa, se non è il caso che la porta, magari è la pazienza che la sta preparando.




martedì 7 ottobre 2014

Due più due

Le aveva fatto tornare la voglia di studiare matematica. Con quel suo modo di scompigliarle i capelli era riuscito a scompigliarle anche i pensieri. Non prendeva in mano un libro di matematica da tanti anni che, ormai, non sapeva più nemmeno come fare a contarli.

Non è vero che certe cose non si dimenticano. Va bene la bicicletta, ma le disequazioni? Ah, come aveva amato le disequazioni. Solo per il fatto che fossero "dis". Distratte, disperate, distinte, distanti: non aveva mai provato una simile affinità con qualcosa che non fosse ricoperto di riccioli neri.
Questo non significa che poi non le avesse dimenticate. A un certo punto, tra l'esame di sociologia e l'ultima lacrima per un ricciolo nero, aveva deciso che sarebbe stato molto più utile rimpiazzarle con la voce inglese per "valvole pneumatiche a doppia sfera metallica" o l'arabo per "vaglio vibrante deglassato".

Aveva dimenticato anche come si ama. Non la tecnica in sé: nelle sue lunghe trasferte - a Bruxelles o a Doha non faceva differenza - l'allenamento non si era fatto mancare. Eppure si era sentita come al primo giorno di scuola quando lui le aveva parlato dell'amore. La prima volta era stato come un gioco con un abbecedario. Poi si era fatto tutto più difficile e le parole si sovrapponevano in pensieri così complessi che diventavano una musica, una sberla.

Un giorno un suo amico le aveva detto "Se hai un problema, Teresa, moltiplicalo". Lei non aveva mai capito il significato di questa frase fino in fondo, ma siccome le piaceva complicarsi la vita, aveva seguito il consiglio con una fede cieca, certa che prima o poi il senso si sarebbe svelato come un fiore che sboccia in autunno.
Così aveva deciso di rimettersi a studiare la matematica. Perché certe cose non si possono spiegare con le parole, ma nessuno aveva ancora dimostrato che non valesse la pena provarci con un integrale doppio.



domenica 5 ottobre 2014

Doppio sogno

Ti sogno quasi tutte le notti, come uno spettro, un residuo: quel piatto mangiato di corsa appena prima di dormire che sai anche tu che non dovresti, che sai già ti farà male. Mi appari quasi sempre sotto forme non volute, troppo vicine a quel che sei, o così lontane che quando mi sveglio mi illudo che mi stia passando.

L'altra notte ho sognato un treno, un'alba che si accendeva veloce come le luci di un club in periferia. Nelle mie scorribande notturne avevo perso una borsa e la città si muoveva come sul tapis roulant di un aeroporto. Ti cercavo. Non era la borsa, non era il treno che, comunque, avrei perso. Non era l'uomo che avevo baciato forte, sul divano e sotto le coperte, o i polsi stretti fino a fare male, un grido che cazzo, stai attenta che ti possono sentire. Ti cercavo come il risveglio, le unghie strette nei pugni: solleva una palpebra adesso, non la senti la pancia che brucia, non la senti la sete?

Quando ho aperto gli occhi la stanza era invasa di cuscini. Suonava una bossanova come in filodiffusione e dalla porta aperta del bagno l'ombra di un uomo si guardava allo specchio. Qualcuno avrebbe giurato fossi tu.


venerdì 26 settembre 2014

Scegliere le scarpe

Martina aveva delle scarpe brutte.
Guardava le scarpe brutte di Martina e pensava che non importasse poi così tanto portare delle belle scarpe. Sua madre aveva tante scarpe che ci aveva riempito una stanza. Martina le aveva detto che anche una moglie di un dittatore sudamericano aveva una stanza piena di scarpe.

Non si ricordava il nome quando l'aveva detto a sua madre, ma lei si stava infilando un orecchino di perla, l'ultimo gesto prima di uscire, prima del Bloody Mary con cui si dava la forza per sopportare le serate, e non aveva notato l'incompletezza del ricordo. A sua madre non piaceva che vedesse Martina.

Sua madre aveva delle scarpe sempre molto curate, come se avesse trovato il modo di camminare a dieci centimetri da terra per non rovinarle. Martina, invece, aveva delle scarpe brutte.
E lei, in questo mondo, ancora non sapeva quali scarpe scegliere.



giovedì 5 giugno 2014

Belle Scritte

Nell'uso dei social network si sta diffondendo un'abitudine perniciosa. Se rabbrividite di fronte ai test sulla città in cui dovreste vivere o il personaggio Disney che dovreste essere se vivessimo tutti in un castello nei sobborghi di Paperopoli, allora mettetevi una maglia pesante. Sto parlando della moda delle citazioni ispirate. Consigli che manco mia nonna che non può più dare il cattivo esempio, lampi di genio che nemmeno la pagina Facebook di Violetta.

Di solito ritraggono frutteti in fiore o bambini nudi che limonano cuccioli di cane e riportano, sovraimpressi, dei motti di spirito dall'alto valore motivazionale, spesso scritti in Comic Sans o in un carattere che ve lo farà rimpiangere, il Comic Sans. Non che abbia mai verificato le fonti, ma normalmente sono attribuite a un filosofo dal nome francese, a un dalai lama a scelta, o a mio cugino di Abbiategrasso.

Oggi ne ho trovata una che mi ha colpito particolarmente. Ve la faccio breve (e in Helvetia). Dice: "se una persona ti vuole, ti cerca; se le manchi, almeno un what's up te lo manda".
Niente da eccepire, per carità. Però noto un inquietante vizio logico.

Diciamo che io voglio vedere se Tizio mi cerca, quindi non solo non lo chiamo, ma non gli faccio nemmeno un like sulla foto del suo ultimo scatto #nofilter #solocosebelle. Ne ho tutti i diritti, per carità: vediamo che fa Tizio. Magari mi manda dei fiori in ufficio.
Magari.

Ma magari Tizio ha letto la stessa massima sopra il cielo del crepuscolo di un'isola polinesiana e quindi pensa: "Oh, vediamo un po' sta Olivia se mi pensa. Col cavolo che le faccio like sul selfie in costume da bagno e la spalla panata nella sabbia del Salento".
Così passano i giorni, io mi lamento con le amiche e  Tizio si strugge giocando a Pes.

Ma la voglia di vivere prima o poi torna, perché in fondo ci siamo visti solo due volte e, sì, un po' ci manchiamo, ma non abbastanza per andare contro i dettami del Dalai Lama: siamo persone con dei principi, noi. (Era anche per questo che mi piaceva tanto, sigh). Così, quando le pulsazioni e la fame nervosa si calmano e  il tasso di verifica delle notifiche sull'iPhone torna nella norma, un giovedì sera qualunque, ci incontriamo al Cape Town. Perché il destino è cieco, ma alla fine a Milano sono sempre quei quattro locali che vanno.

"Guarda Sabri, c'è quello che non si è più fatto sentire. Che vergogna. Per fortuna non ci sono stata, pensa come starei male adesso!".
"Oh, girati, quella è la stronza che non c'è stata. E poi manco un messaggio per ringraziarmi del sushi. Sessantotto euro buttati nel cesso". La serata passa e nemmeno ci salutiamo: io sono troppo impegnata a fingere di flirtare con un designer di ventidue anni, mentre lui nemmeno finge di provarci con la biondina seduta sul marciapiede.

E a nessuno dei due viene da chiedersi come sarebbe andata se solo il Dalai Lama, o mio cugino di Abbiategrasso, si fosse fatto i cazzi suoi.

Foto Credit: Belle Scritte


giovedì 8 maggio 2014

Something stupid like I love you

Era la fine di novembre del 2008 e facevo un elenco dei ti amo. Ora potrei allungarlo all'infinito, ma non è questa la regola. Però posso promettere di tornarci su. Presto.




C'è quello da bambini, sui biglietti colorati o confessato alla mamma con grugno serio da persona grande. Quelli sui diari e quelli urlati, e tutti gli altri solo pensati. Quelli chiusi in un pianto e quelli che fanno commuovere perché non ci avresti più sperato. Quelli di fronte a un tramonto, quelli che sono solo gioia. Quelli consueti come un ciao, ma belli lo stesso perché sai che sotto sono veri e intensi. Quelli scritti su un muro per riconquistare, quelli per tradire, per raggiungere scopi, quelli gratuiti o regalati. Quelli che sai che non torneranno più e quelli che sai che non sono mai arrivati.

Io ricordo quello di un momento, quando lo sentivo premere forte nella testa e nel petto, senza uscire.
Perché il più grande nemico di tutti i ti amo del mondo è la paura.

martedì 29 aprile 2014

Il profumo dello sporco



“In the spring, at the end of the day, you should smell like dirt.” — Margaret Atwood

- Sto facendo le pulizie di primavera.
- E' per questo che non mi parli?
- No, quello è a capodanno. Si buttano le cose vecchie. In primavera non si butta, si toglie lo sporco, e si vede quel che resta.

lunedì 28 aprile 2014

Dieci segni che un uomo sta flirtando con voi

Mi piacerebbe dire che questo è un post sponsorizzato, ma l'amico che mi ha chiesto di scriverlo ha un mutuo da pagare. Con pochi soldi, ma molta voglia di aiutare le donne, Alessandro mi ha chiesto di aiutarlo a farci capire quali sono i Dieci segni che un uomo sta palesemente flirtando. Si tratta di un articolo che, tra l'altro, va un po' contro alla mia teoria secondo la quale un uomo ci sta sempre provando: perché la carne è debole, perché l'uomo è cacciatore, perché sarebbe scortese, perché non si sa mai, perché tanto poi al massimo le dico che ho ancora in testa la mia ex, che ho la gonorrea, che lei merita di più. O semplicemente perché noi siamo irresistibili. Ma siccome amo il dibattito e siccome ho qualcosa da farmi perdonare, ecco la mia versione, tradotta e personalmente commentata, dell'articolo che il mio amico pubblicizza tanto:
  1. Sorride, il cuor contento. Un sorriso non costa nulla, ma vale moltissimo. Sono d’accordo, però non aspettatevi lo champagne al secondo appuntamento. Magari una vaporella al quinto anniversario, se ci arrivate.
  2. Arrossisce: l’emozione di vedervi comporta un maggiore afflusso di sangue al volto. La mia idea era che l’afflusso dovesse essere direzionato altrove, ma vabbe’.
  3. Vi guarda negli occhi più a lungo del normale. Peccato non avere informazioni su quelli che vi guardano il sedere più a lungo del normale.
  4. Fa mirroring, che ho scoperto non essere uno sport estremo o una di quelle pratiche che cambierà per sempre il vostro rapporto con il Vetril e il panno in microfibra: una persona fa mirroring quando rispecchia i vostri gesti e i vostri atteggiamenti fisici. Passate la serata a leccarvi il rossetto o a sfiorarvi lascivamente i seni. Così, per vedere di nascosto l’effetto che fa.
  5. Tiene le mani sui fianchi, o in tasca, oppure gioca con la fibbia della cintura, con l’elastico degli slip. Questa avrei preferito saperla solo dopo l’ultimo incontro con quel cugino sacerdote che indossa jeans neri e slip di Calvin Klein.
  6. Vi tocca. E se non vi viene spontaneo rispondere con una pizza in faccia, probabilmente dovreste dargli una chance.
  7. Piega la testa verso di voi. È un segno che vuole ascoltare con attenzione ciò che dite. Non illudetevi: questo non significa che se ne ricorderà ancora dopo sei anni. O sei minuti.
  8. Le pupille dilatate. È più facile che sia sotto l’effetto di stupefacenti, ma se il vostro boy non fuma nemmeno, allora è amore vero, e comunque smette quando vuole.
  9. Alza le sopracciglia. Gli avete appena detto che portate mutandine con i sette nani?
  10. Sembra agitato, si mangia le unghie, fa in mille pezzi i sottobicchieri della birra, tamburella nervosamente le dita sul volante? Arriverà un momento in cui vi dirà che lo fate sentire inadeguato e voi gli risponderete che effettivamente è inadeguato. Sarà l’inizio della fine, però adesso vi ama, toglietevi dalla testa l'idea che abbia la sindrome di Tourette.
Ecco, ora che avete finito, vi consiglio di dare un'occhiata all'originale. E' corredato di foto di uomini dall’espressione ebete. L'obiettivo è farvi pensare non solo che non siete irresistibili, ma anche che quei dieci pirla con le pupille dilatate e l'onicofagia che ci proveranno con voi non sono nemmeno capaci di farsi un selfie decente. Non credeteci.


lunedì 14 aprile 2014

Splendido splendente

Era il 28 novembre 2009 e tutto andava bene, in particolare tra i fornelli



Un gruppo di 340 ricercatori dell'Università di San Diego ha scoperto che è meglio non pulire troppo le ferite: un po' di terriccio, della polvere o vario ed eventuale schifo aiuterebbero, anzi, la cicatrizzazione.
 E poi è meglio non lavare troppo i bambini, per evitare che sviluppino allergie e intolleranze. Se non avete mai sentito di un ghanese allergico alla Nutella, probabilmente non è perché la Ferrero non esporta in Ghana, ma perché questo da piccolo non veniva immerso nel Napisan due volte al giorno dopo aver mangiato latte sciacquato nell'Amuchina.

Mi sembra ragionevole. Qualche giorno fa ho letto che una donna si spalma su corpo e capelli in media 515 agenti chimici. Ogni giorno. A casa mia ci sono più prodotti anti calcare che pacchi di pasta.

Non stiamo forse esagerando un po' con questa storia della pulizia a tutti i costi?
E non lo dico per giustificarmi di un certo lassismo nella routine di lavaggio dei fornelli (che, d'altra parte, ho usato solo 2 volte in 4 mesi). Lo dico perché in alcuni momenti mi convinco che abbiamo sviluppato una pericolosa tendenza alla pulizia estrema in tutti gli ambiti della nostra esistenza.

Giorni fa una mia amica si lamentava di sentire un'insana tensione verso lo sporco. E mentre lei se ne rammaricava, io gioivo per lei dietro al mio cappotto bon-ton appena un po' impolverato. Quella che secondo il suo giudizio è una pericolosa china verso il degrado e l'umiliazione, per me è solo la vita che inizia a irrompere, l'istinto che reclama attenzione, lo sporco attorno alla ferita che aiuta la cicatrizzazione.

Sulle nostre anime si deposita pulviscolo che noi cerchiamo in modo ossessivo di lavare via, per paura che si incrosti e non ci permetta più di riconoscere la nostra figura sui pavimenti a specchio delle nostre vite perfette. E' fatto dalle cose che ci sporcano, che ci fanno ingrassare o ci umiliano, che non ci piacciono o ci addolorano, che grattano e graffiano. Sono le sofferenze, ma anche le passioni, il sesso fuori da ogni giudizio, le pellicine che sanguinano e le porte in faccia.

Non che io auspichi un rotolarsi nel fango dei nostri istinti più bassi, no. Io certo consiglio di tener sotto controllo l'istinto a rosicchiarsi le cuticole, così come di evitare traumi da porta blindata al lobo frontale. Ma dico anche che lo sporco è parte della nostra vita e che non è disinfettandoci da tutto ciò che ci sembra oscuro o pericoloso o maligno che vivremo un'esistenza sana e felice.
La natura è più saggia di noi e alcune ferite dell'anima, forse, possono guarire meglio se non ci disinfettiamo. Forse lasciare che un po' di brutture o bassezze ci si posino addosso non solo non ci fa tutto il male che il nostro pulito io teme. Forse è addirittura la cosa che ci può salvare.

Ci penserò su. E non nascondo che la possibilità di diventare allergica alla Nutella perché uso troppa Amuchina avrà un certo peso nella riflessione.

venerdì 11 aprile 2014

Fiori


Quando fioriva il calicanto ne ascoltavo l’odore senza respirare troppo. Avevo paura che il suo profumo oscurasse le tue parole, dette piano, mutevoli.
Quando fioriva il calicanto avevo paura.

Quando il calicanto sfioriva, vedevo fiorire la magnolia con la meraviglia di un nuovo racconto: era la storia brevissima di un amore che non finisce mai. Si aprivano i fiori, eravamo ciechi nell’istante che non lascia spazio a nulla.
Quando fioriva la magnolia avevo gli occhi chiusi.

E poi sono fioriti i ciliegi e sui rami di magnolia ho appeso un braccialetto: la gazza non l’ha rubato, la pioggia non l’ha sciolto. I petali bianchi coprivano i nostri piedi nudi e tu eri così forte che già sentivo il sapore dolce dei frutti.
Quando il ciliegio non è sfiorito, ti baciavo senza aspettare.

martedì 1 aprile 2014

Il polmone d'acciaio

Eliot

L’unica cosa che posso fare è scrivere. Mi ricordo alcune immagini della mia infanzia: persone in un polmone d’acciaio. Non se ne vedono più. Forse sono guariti tutti, o non vanno più di moda.
La differenza è che nel mio caso è la testa che è chiusa nel polmone d’acciaio. E il polmone la tiene in vita. Così bloccato, al pensiero resta solo una via d’uscita: le parole, scrivere la salvezza.

venerdì 28 marzo 2014

Il negligé blu

Mia madre si preoccupa di come mi vesto quando faccio yoga. Ha visto alcune foto sulla pagina Facebook della scuola e ritiene che io mi agghindi in modo poco elegante per le circostanze. Certamente non tiene in considerazione alcuni elementi.
Per la maggior parte del tempo, ad esempio, lo yoga si fa a occhi chiusi. E quando li devi aprire, stai sicura che convergono comunque, sempre, tutti, sulle contorsioni delle perfette forme dell’insegnante ex modella. Sembrerà incredibile, ma è così.
“Vabbe', ma prima e dopo?” Certo. Ci sono quei trenta secondi in cui ci si precipita allo spogliatoio con il solo pensiero di arrivare a casa, a letto, prima che l'effetto del rilassamento finale sia passato del tutto. Quanto dura un giro sul red carpet?
Allora continuo. Non ti preoccupare, i miei compagni di lezione vestono prevalentemente di roba di canapa o di cotone organico cucito da gruppi di donne emancipate grazie a un progetto di microcredito gestito dall'Associazione dei cugini degli ex hippy caritatevoli del Guatemala. In alcuni felici casi, indossano le polo da centoventi mila lire che mettevano per andare a fare squash nei campi della GetFit, quando essere yuppie era ancora una cosa cool. Poi si può scegliere tra maglie di band neo punk, canotte della salute, pezzi sparsi di pigiama ingialliti e un paio di completi Dimensione Danza indossati da ragazze le cui madri si preoccupano di come si vestono quando vanno a yoga.
La varietà è ampia e la verità è una: nessuno si preoccupa del look, lo yoga - ripeto alla mamma - è un  ambiente look free.
“E se per caso c’è uno che ti piace?”.


Immaginate il potere seduttivo di un downward dog in negligé blu

venerdì 21 marzo 2014

C'era una volta

C'era una volta un bambino che non si sapeva allacciare le scarpe. C'era una volta un padre: aveva lasciato acceso il gas sotto il pentolino del latte.
C'era il sole, c'era una volta il sole che guardava e non poteva fare niente, mentre la pioggia aspettava di entrare in scena, trionfalmente.

C'era la campana che suonava, la ragazza uscita dalla scuola che rideva. C'era una suora che piangeva, lo spazzino sudato che entrava in casa; c'era sua moglie, bellissima, che lo attendeva.

C'era una scimmia che beveva e un paracarro, afflitto, che taceva.
E poi c'eri tu. C'erano le corde rotte della tua chitarra nuova e io che ti guardavo tacere, con il mal di gola.


giovedì 6 marzo 2014

Ancora tu!

È ancora una giornata grigia e gli alberi sono ancora grassi di pioggia. Passa un tizio che fa jogging, un cane gli corre accanto. Giorgio è in ritardo. Guarda la vetrina dei televisori per distrarsi, guerra e pailettes. Sbdaiglia, alza lo sguardo, lei è lì, appena dietro il vetro seduta su due enormi casse Bose. Porta un cappottino verde che aveva provato una volta in un negozio e poi non aveva comprato; per il resto è uguale a lei.

“Ciao”.
“Ma… tu sei... tu? Cioè io?”.
“Sì sono io, cioè tu”.
“Wow".
"Sì sono piuttosto in forma".
"Che ci fai qui?"
“Non hai niente di più importante di cui parlare?”.
“Perché sei in una vetrina di negozi di televisori?”.
“E questo ti sembra più importante?”.
“Non lo so, sono un po’ confusa”.
“Che cosa hai fatto in questi giorni?”.
“Le solite cose. Sto aspettando Giorgio, andiamo da un cliente oggi”.
“Aspetta un po'. Giorgio qual è?”.
“Il mio capo, quello dell’agenzia”.
“Stai ancora in quell’agenzia?”.
“Perché tu no?”.
“L’ho lasciata tre anni fa. Non la sopportavo più”.
“Gia, nemmeno io”.
“Appunto".
“Inutile che fai ironia. Non ho trovato niente di meglio”.
“Certo”.
“Stai facendo ironia. Ancora".
“Il giorno che sono uscita dall’agenzia ho conosciuto una persona, quello dopo ho visto un annuncio. Poi ho deciso di partire”.
“Partire?”.
“Hai sempre voluto andare in Australia, no?”.
“Già”.

Sorride da dietro il vetro, tira il bavero un po’ più su.
“Quindi hai lasciato il lavoro, ignorato quella persona, non hai risposto all’annuncio…”
“Sì, e sono partita per l’Australia”.
“Come è stato?”.
“L'Australia è sopravvalutata”.
“Quindi ho fatto bene a non partire?”.
“Non lo so. Tu che dici?”.
“Alla fine siamo tutte e due qui, ora.”.
“Infatti”.
“E la persona che hai ignorato che fine ha fatto?”.
“Ecco, non è proprio corretto. Non l’ho ignorato”.
“Però sei partita”.
“Sì. A lui non importava molto, del resto. Aveva una fidanzata molto bella.”.
“Ah”.
“Comunque mi telefonava ogni tanto. Dalla casa della fidanzata. Le fidanzate molto belle spesso sono anche molto ricche, soprattutto le bionde”.
“Io ho provato a farmi bionda la primavera scorsa”.
“Occristo”.
“E’ durata poco. Ma dimmi come è andata con questo tizio?”.
“Lo sto aspettando. Dobbiamo fare una cosa insieme”.
“Ora siete amici, quindi?”.

Ride.
“Tre anni lontane e non hai capito niente eh?”.
“Perché? Una donna e un uomo non possono essere amici?”.
“Ma ti senti? Chi sei, Shirley Temple?”.
"Ma chi sei tu! Ti presenti nella vetrina e inizi a sputare sentenze! Io nell'amicizia ci credo".
"Certo, vabbe. Comunque non è il nostro caso".
“Ha lasciato la fidanzata?".
"Più o meno".
"E che cosa dovete fare oggi?”.
“La vedi quella banca?”.
“Certo che la vedo. Che significa?”.
“Stanne lontana”.
“Volete rapinare la banca?”.
Sorride ancora. “Mi pare che quello sia Giorgio”.
“Sì, è la sua macchina.  Ma che cosa dovete fare in banca?".
“Corri, va’, sta bloccando tutto l’incrocio quell'imbranato”.

Si volta, Giorgio picchietta sul clacson, un tizio su un furgone lo insulta a gesti.
"Ok, allora, vado che è meglio. Ciao eh eh..."
"Ciao, tanto ti ritrovo quando voglio".

“Sì ma la banca? Che cosa vuoi fare in banca?”.
“Te l’ho detto, Silvia, che gli piacciono le donne ricche”.



lunedì 24 febbraio 2014

Stringere i nodi

Ultimamente ho riflettuto sui nodi.
Non sopporto sciogliere i nodi dei fili degli elettrodomestici, ma sopporto ancora meno prendermi cura dei fili, tipo arrotolarli attorno all'asciugacapelli una volta che ho finito di farmi la messinpiega.
Come risolvo il problema? Moltiplicandolo.
Quindi quando il filo non arriva perché è annodato, io tiro forte-sempre-più forte. Il nodo si stringe, la parte libera di filo si allunga e l'obiettivo è raggiunto.



Ed è così anche nella vita. A volte per avere più filo si deve stringere il nodo ancora più forte. A volte l'unica strada per arrivare alla soluzione passa dal peggioramento del problema stesso. Quel che conta è arrivare a spolverare l'ultimo angolo della camera da letto, non prendersi un accidenti uscendo di casa con i capelli ancora bagnati.

Detto questo, ieri mi sono decisa a sciogliere tutti i nodi del filo del Folletto, stamattina quelli del phon.

mercoledì 19 febbraio 2014

Sulla lingua e sul pensiero

Giugno 2009 - Vancouver

Le parole creano, danno forme, le parole sono azioni con effetti anche nel mondo immateriale: sogno, persuasione, sprone, potere. Noi viviamo immersi in un mondo di parole. E’ con le parole che costruiamo i nostri pensieri: anche quando si tratta di calcoli e teoremi, non puoi scappare dalle parole. E la lingua che usiamo non puo’ non avere un effetto su cosa diciamo e come pensiamo e, chissa’, forse, anche su cosa pensiamo.


E cosi’ negli ultimi mesi a Raincouver si registrano casi di difficolta’ con i tempi verbali: l’uso dell’ausiliare essere puo’ diventare una fastidiosa alternativa al comodo, ecumenico e rassicurante avere.
Anche le preposizioni hanno qualche difficolta’: “Sono su Robson, sono li’ in cinque minuti”. Se qualcuno mi ha mai sentito dire: “Sono su Buenos Aires”, gli offro un un tall latte double caramel.
Credo che una pietra del Colosseo sia caduta quando, scrivendo questo blog, ho dovuto cercare sul vocabolario una parola italiana. Volevo dire effimero e mi veniva solo fleet, che tra l'altro ha anche un significato piu’ povero (certo, se mi fosse venuto ephemeral non avrei avuto problemi).
Un capello, del resto, sono sicura sia caduto a un amico in visita qui quando gli ho detto: “Vai avanti un blocco e l’ostello e’ sulla tua destra”. Io vivo a Legolandia, non lo sapevate?
Ieri volevo spiegare un fastidioso trabocchetto psicologico in cui cadiamo spesso noi fanciulle: self questioning, per farla breve. E invece mi e’ toccato fare un riassunto di tutta la vicenda del pozzo. E anche adesso, confesso, avrei voluto usare affect almeno in un paio di situazioni.
Non che la cosa mi spaventi, per carita’. Mi chiedo solo quando l’inglese iniziera’ a semplificarmi i pensieri, oltre che le espressioni. Quando le mie rimuginazioni saranno composte da piccoli elementi giustapposti, quando le mie paranoie potranno essere espresse tutte da un solo verbo e quattro preposizioni, quando le subordinate saranno un ricordo lontano (che poi subordinate fa cosi’ politically incorrect) e mi saro’ dimenticata del pozzo nel mio monotono self questioning...
Ecco, allora, saro’ almeno piu’ felice? O sara’ come vivere tutta la vita con un delizioso little black dress e una scatola di accessori colorati?

martedì 18 febbraio 2014

Pastorale Americana

Ho dovuto controllare su Wikipedia, voce I dieci Comandamenti: Non commettere falsa testimonianza (contro il prossimo tuo).

Non è un peccato. Che cosa saremmo se dovessimo sempre essere noi stessi?

L’altro giorno ero su un treno. I treni sono una magia; lenta, ma sempre una magia: puoi essere una spia russa, su un treno, puoi essere salito per caso e senza biglietto, un’avventuriera in viaggio verso nord, una suora laica, una mamma triste, la pendolare stanca.

L’altro giorno non avevo tanta voglia: non avevo voglia di viaggiare, ma nemmeno di stare a casa, non avevo voglia di essere nessuno, tanto meno me stessa. Così sono salita su un treno.
Ascoltavo musica sensuale e leggevo Philip Roth. Lui mi guardava, aveva degli appunti di una cosa che sembrava una macchina idraulica, o il ritratto della madre di Kandinsky. L’ho assecondato, ho silenziato la musica e gli ho parlato di me.
Sì,  sono una studentessa di teologia, torno in visita dai miei genitori. Mi piace, non è troppo dura. Scendo alla prossima, ha recuperato un po’ di ritardo. Doveva essere peggio, un tempo, con quei mattoni da studiare. Ingegneria, gli anni ’70. La didattica è migliorata, forse. Torno a Milano domani. Toccata e fuga, un’amica che compie gli anni. Compagne di liceo. È passata una vita? Ne dimostra meno. È ora che mi prepari. Grazie per gli auguri, mi darò da fare. Promesso. Ah sì, è mio, grazie, che sbadata. Un ebreo sporcaccione, Esegesi della Sessuologia Biblica.
Principe, Stazione di Genova Piazza Principe.

martedì 4 febbraio 2014

Non avrebbe mai potuto odiare Anna

Stava facendo le valige. Anna era ferma sulla soglia e toglieva buona parte della luce all’interno della piccola casa sulla spiaggia. Aveva registrato la cosa senza lamentarsi, aveva stretto un po’ gli occhi e continuato a piegare le sue cose.
“Farà molto freddo a Milano”.
“Sì”.
“Potevi almeno aspettare la primavera”.
“Potevo, ma non mi andava.”.
“E cosa farai una volta lì?”.
“Andrò a stare dai miei per un po’. Mi cercherò un lavoro in banca”.
“Ma non scherzare. Quanto vuoi resistere chiuso in un ufficio?”.

Non aveva fatto una previsione. Ogni giorno si svegliava presto e andava a correre sulla spiaggia bianca. Si fermava a prendere un succo di frutta, a farsi fare delle uova. Le mangiava da solo guardando le palme, o ne faceva fare di più e le portava ad Anna, svegliandola. Per questa ragione a volte lei gli concedeva di fare l’amore. Poi c’erano i periodi in cui lei stava con qualcuno e allora le uova le mangiava da solo e aspettava che arrivassero i primi turisti da portare in giro con la barca.

Erano sbarcati insieme, lui e Anna. Era durata un po’, ma una notte l’aveva tradita con una tizia di passaggio che non era niente di speciale. Anna l’aveva scoperto e aveva scoperto, soprattutto, che non le importava poi così tanto. Così erano diventati amici e lui si era spostato a vivere nel bungalow singolo sulla spiaggia. Ogni tanto le portava le uova, ogni tanto lei gli risistemava la stanza. Ma erano di più le volte in cui lui le portava le uova.

Aveva ragione, non sarebbe resistito tanto. Si sarebbe stancato dei completi grigi, della pioggia, della gente nei cinema, dell’odore degli hamburger. Un giorno avrebbe odiato le lasagne di sua madre, le scintille del camino che bruciano i maglioni in montagna, le code di domenica per lo stadio, la sua donna. Avrebbe odiato il lavoro in banca, era certo, ma sarebbe stato peggio odiare Anna.

“Resisterò. Nella vita si cambia”.


mercoledì 29 gennaio 2014

Una lunga storia d'amore

Uomo: “Ciao”.
Donna in un Bar di Notte: “Ciao”.
Uomo:“Stavo pensando di lasciarti”.
DBN: “Ma non mi puoi lasciare”.
Uomo: “Certo che posso”.
DBN: “Fermati, dove vai? Non mi hai nemmeno detto come ti chiami”.
Uomo: “Che importanza ha, se tanto ti sto lasciando?”.
DBN: “Non puoi lasciare una persona che nemmeno conosci”.
Uomo: “E chi ti dice che io non ti conosco? Io conosco come si incurva la tua schiena quando scendi le scale, conosco i tuoi occhi, che se si perdono o mi trafiggono non l’ho mai capito. Conosco come ti piace il caffè, come non prendi mai il latte la mattina. Ti ho visto quando ti mettevi le dita nel naso, ti ho sentito toccarmi senza accorgertene. So quando hai conosciuto qualcuno che ti piace, si capisce da come inciampi sulla soglia e da come non te ne importi. E capisco quando lo lasci perché sorridi al barista e abbandoni la tua frolla a metà”.
DBN: “Pensavo stessimo facendo finta”.
Uomo: “Sì, lo pensavo anche io”.



venerdì 17 gennaio 2014

Pioveva sempre

Settembre 2010. Che barba la pioggia, che bella, la pioggia.



Pioveva. Come ogni volta che ti ho visto, pioveva. Un inizio tardo di autunno, la prima pioggia di sorpresa dopo un settembre lungo, troppo caldo dopo un agosto tropicale.
Quando era neve non c'eri. Sepolto nelle tue coperte o a zonzo, lontano. Non che io mi chiuda in casa. Temo il freddo, lo temo tantissimo, ma mi copro, strati di seta e lana e roba sintetica e ancora lana. La pelle che diventa bella, le serate seduti sul parquet. Asciutti, senza di te. Non sei mai stato tipo da stagioni intense. Non ti immagino con una tuta da sci. Potrei pensarti in costume?

Aprile era una noia di pioggia, non vedevi l'ora che finisse. Guardavi il meteo, io i miei stivali. Reggeranno fino alle infradito, fino a domani? E avrei voluto mettere un vestito nuovo, quello leggero. Non pensavo a te e sei arrivato, nascosto dietro un ombrello di pioggia dritta, infinita. Quella che porta piccole frane di capelli arricciati.
Volevo così tanto l'estate. Tanto che è arrivata. Dici è normale. Non è vero. A volte le sfuggiamo volando verso nord, come le oche. Come noi. L'asfalto che vomita vapore, il sole e le sue creme. Non sei mai stato tipo da stagioni intense, ma abbiamo avuto il nostro temporale. Grazie a dio: sarei morta senza, sarei morta vedendoti respirare, io che non respiravo.

E ora inizia un altro settembre. Subito, così presto. Troppo, dici, non hai amato l'estate come avresti voluto. Ti chiudi in un planetario per vederti addosso un pezzo di sole. Che idea, ti dico, ed esco a comprare un altro ombrello colorato. Mi faccio bella per un nuovo autunno, ma temo la pioggia per quel che non mi darà. 




venerdì 10 gennaio 2014

Il mistero di sleepy Olly

Lo so, lo so. È che sono stata molto impegnata. Ho lavorato, ho fatto liste mentali di buoni propositi, ma soprattutto ho mangiato. Non sottovalutate mai l’impegno richiesto da un buono stile alimentare: mi ha tolto tutta l’ispirazione. Non potete immaginare quante risorse creative consumi dover immaginare che le carote crude siano spaghetti ai frutti di mare, o la pasta in bianco con cavolo bollito sia un piatto orecchiette alle cime di rapa, o che il minestrone con un po’ di curry siano dei ramen da fare piangere. Roba da far diventare Dalì un commercialista di Buccinasco.
Ho anche scritto, altrove. Olivia diventa grande. Ma questa è un’altra storia. Prometto che mi dedicherò con rinnovato entusiasmo ad aggiornare queste pagine. Anche perché mi sono mancate.
Obiettivi del nuovo anno: diventare una skinny bitch, senza dimenticare di scrivere, tanto, anche qui.