domenica 28 aprile 2013

Cose che dimentico.

Ho dimenticato le cuffiette dell'iPod in ufficio. Del resto sono rotte, quindi non è che me ne sarei fatta granché. Sarei dovuta andare da Saturn a comprarle, ci sono passata l'altro giorno, ma niente. Mi distraggo. Mi distraggo e le cose normali, della vita, perdono forza, definizione.
Ho già parlato dei problemi relazionali che possono nascere da una fervida immaginazione.
E' qualcosa di simile. Sono storie latenti. Stanno lì, pronte a impossessarsi dei miei pensieri nel momento in cui un fattore scatenante si presenta davanti ai miei occhi, o alle orecchie, e li stuzzica.

Come quella coppia sul tram, il giorno in cui dovevo prendere le cuffiette da Saturn. Lei aveva un volto molto giovane, lui un cappello da giovane. Ricordava un Ministro dell'Istruzione, lei, con certi occhiali e un foulard, e aveva denti brutti dai quali non riuscivo a staccare lo sguardo. Lui sembrava di ritorno da Ibiza, con la barba di due giorni e la caparbietà di chi è troppo vecchio per certe cose, ma ancora regge. Discutevano sulla fermata alla quale scendere, la fermata di un ospedale o di una casa elegante, la fermata di una zia che sta poco bene (dovresti sopportarla, invece, perché sono il suo preferito e quando se ne andrà, ci lascerà tutto e allora non sta bene che non ti piaccia, adesso, perché poi vedrai come ti piaceranno i suoi soldi), una sorella che ha partorito (ah, ma poverina, il marito l'ha lasciata al quarto mese per una ballerina di tango e il figlio, alla fine, lo chiamerà comunque Paquito); la fermata per il compleanno di un bambino, un negozio di collezionismo,  o solo un ultimo treno (allora parti, amore, vai, vedrai che starai bene; a Rocky ci penso io, tu vai, stai bene, amore).

Funziona proprio così. Le storie prendono vita negli oggetti che vedo e diventano rumore assordante che rende inutile l'acquisto di cuffiette per ascoltare musica. Diventano forti come il tuono che adesso rimbomba tra la finestra e il muro rosso di fronte, reclamando attenzione verso una nuova storia.

Fa che sia d'avventura, fa che finisca, almeno, con un sospiro di sollievo.

sabato 27 aprile 2013

La felicità è un piatto caldo.

- Ti ho visto sorridere, ieri. Un sorriso fisso, in continuazione. Come se fossi felice, davvero felice.
- Ero felice.
- Sono contenta.
- Sono innamorato di te.
- Non ti sembra troppo?
- Forse. E a te?
- Mi prepari la pizza stasera?


mercoledì 24 aprile 2013

La dialettica tra lungo e breve termine

In questi giorni incerti, mi sembra di essere tornata lì, al 19 maggio 2010.
Ah no, certo: ora non bevo più latte.


Ho visto un’ex collega a pranzo giorni fa.
Dice che il suo fidanzato le ha chiesto di sposarlo dopo tre giorni che la conosceva, che ha passato più di dieci ore negli ultimi due giorni a visitare case da acquistare e ha visto i genitori del fidanzato cinque volte in una settimana.

Il magro bilancio dopo questa conversazione è stato:
  •     io, dopo tre giorni che conosco qualcuno, trovo ardito anche chiedere "caro, mi passi il sale?";
  •     in due giorni non sono stata nemmeno dieci ore a casa mia (notte inclusa);
  •     la massima vertigine di stabilità che posso sopportare è l’acquisto di latte a lunga conservazione;
  •     saranno dodici anni che non vedo i miei genitori cinque volte in una settimana;
  •     anche in un mese, a pensarci bene.
3, 2, 10, 5.
Magari me li gioco al lotto.
Se vinco mi compro latte a lunga conservazione per dodici anni.

domenica 21 aprile 2013

Una metafora.

Avete presente quando da ragazzini si giocava a calcio in cortile? Gli zaini che segnano le porte, la conta per chi fa le squadre. Ecco, più o meno la situazione è questa.
Ricordate qual era la peggiore conclusione possibile? Non era perdere o fracassarsi una rotula sul cemento. La cosa peggiore era quando qualcuno, per paura di come potesse andare a finire, chiamava il nonno.



E con le mani amore

Leggi il racconto ascoltando La Donna Cannone di Francesco De Gregori.

La sua compagna di stanza ascoltava La donna cannone. La ascoltava a ripetizione, ma Sara non aveva il coraggio di chiederle perché; semplicemente, la prendeva come un monito.
In passato aveva avuto anche il coraggio di buttare il suo (enorme) cuore tra le stelle: la cosa buffa è che lo trovava sempre quando le situazioni erano disperate e il paracadute non si apriva mai. La cosa bella, invece, era che alla fine riusciva sempre a rialzarsi.
Questo era un caso diverso, la situazione piuttosto complicata. Questa volta, Sara amava due persone. Erano due persone in una sola, ma con una poteva anche volare in cielo in carne ossa, mentre l'altra non avrebbe mai nemmeno dato un'occhiata al suo vestito blu e argento sul cartellone del circo.
In effetti non è corretto dire che lo amava. Avrebbe potuto amarlo, amarlo tantissimo, quando i suoi occhi si aprivano su di lei bagnandola con la tenerezza più solida che avesse mai sentito nella sua vita.
Avrebbe potuto amarlo quando parlavano seduti sotto i portici di via Pò fingendo di godersi l'ombra di fine luglio. Nessuno dei due aveva il coraggio di fare la valigia per tornare a casa e ogni argomento toccato, con il sedere che faceva male e un sassolino che si tatuava sempre nel punto più morbido tra il piede e la caviglia, sembrava pote reggere i pilastri della terra. Forse lo amava anche quando le raccontava dell'ultima sua fiamma, lo amava e basta.
Ma no, non lo amava. Non lo amava perché non sarebbe mai stato suo e lei non riteneva dignitoso amare uno che non voleva essere suo. Non lo amava perché faceva cose stupide e ogni piccola cosa stupida che faceva le ronzava nell'orecchio come un tornado. Sara non era fatta per amare i tornado. Lei era il tipo di ragazza che ama i venti sottili e le carezze, una di quelle che non ci pensa, non più, a incamminarsi tutta sola verso un cielo nero nero.
Così stava zitta. La sua compagna di stanza a volte le suggeriva di parlargli. Per dire che? - le rispondeva lei. Non lo so, forse che sei innamorata, o forse per capire che problema ha. Lei sapeva che non aveva nessun problema e sapeva che non gli avrebbe parlato mai, perché non avrebbe mai avuto il coraggio di chiedergli di essere diverso. Questo toglieva ogni dubbio; del resto la compagna di stanza aveva già smesso di seguirla da un pezzo, presa da Diritto Privato o dal pensiero dolce di un tale Gian Franco.
E senza dir parole nel mio cuore ti porterò. 
Che poi Sara non aveva mai capito se la chiamano donna cannone perché usa il cannone per essere lanciata in aria o solo perché, poverina, è troppo grassa.




venerdì 19 aprile 2013

Non sei tu.

Oggi mi sono ricordata di questo.
Lunga lettera d'amore scritta a mano. Attesa di giorni.
Risposta: "Olivia, sai che scrivi proprio bene?".

Dopo un paio di anni.
Straziante lettera d'addio scritta sul cartoncino della confezione delle calze. Lacrime, il tassista che suona nervosamente il clacson sotto casa, la pioggia, le lacrime, altra pioggia, la coda verso l'aeroporto.
Risposta: "Olivia, hai una grafia di merda, però scrivi davvero bene.".

Passano altri tre anni. I media cambiano, i pirla restano pirla.
Messaggio su Facebook con sentita analisi psicologica, non troppo lunga - il medium è il messaggio, e poi non è che ci fosse tutta sta roba da analizzare.
Risposta: "Olly, scrivi così bene. Grazie, ci penso su".

E' stato in quel momento che ho deciso di aprire un blog e chiudere con i pirla.
 


(immagine da Wasted Rita http://ritabored.blogspot.it)

martedì 16 aprile 2013

L'arroganza del riccio

Sarà anche elegante, ma a me il riccio sta un po' sulle palle.
E' che anche io sono un po' così e questo non fa altro che aumentare il fastidio. I motivi sono diversi.
Prima di tutto perché, conoscendo i miei ricci, io mica mi faccio abbindolare: non siete timidi e no, non provateci, non siete nemmeno stupidi (non siete strabici, non siete dei casi di blando Asperger, non avete bisogno di un'altra visita dal vostro otorino di fiducia). Siete ricci e siete arroganti; o siete arroganti perché siete ricci. L'universo è troppo complesso per i legami di causa ed effetto.
Ma voi lo sapete bene, perché voi sapete di filosofia morale e fisica dei quanti, voi conoscete i meccanismi elettorali del Paraguay bene almeno quanto la ricetta dell'abbacchio a scottadito e, soprattutto, non avete mai perso una partita a Ruzzle.

Mi date fastidio perché riconosco e ammiro molto tutte le vostre doti. Ma poi vi vedo lì, chiusi dietro alle vostre spine, scettici con gli sconosciuti, cinici con gli amici ed è un vero fastidio; lo sapete: non c'è nulla di più fastidioso dell'arroganza di un riccio, soprattutto per un altro riccio.
Mia nonna lo dice sempre: chi si somiglia si piglia. Suppongo che abbia ragione, visto che voi ricci mi piacete sempre (cosa che non fa altro che aumentare la mia antipatia nei vostri confronti, sia chiaro). Quanto mi attrae lo scontroso, quello che fatica a parlarmi, quello che ha sempre più problemi di me o che sa comunque troppe cose per potersi dimenticare un po' di se stesso. Volete mettere un dolce coniglietto, una volpe furbetta, un ragazzo sveglio che ha addirittura il coraggio di sorridermi?
Certo, lo so benissimo e giuro che mi sforzo. E' che poi arriva questa corazza di spine - tendenzialmente muta -  e io non riesco a vedere altro. Capace pure che ci amiamo silenziosamente per anni, continuando, ovviamente, a starci reciprocamente sulle palle.

giovedì 11 aprile 2013

Hilton

E' in questo periodo dell'anno che, più che in altri, sento la voglia di essere lontana: anonima, dimenticata, nuova. E l'avventura riparte sempre da una versione di sé sciacquata dal colore ecru e dalla nebbia umida di un angolo tropicale.
(Sono passati tre anni, dal 13 aprile del 2010)



Ho voglia di passare un po' di tempo in un grande albergo.
Uno di quei grandi alberghi anonimi, ma di discreto lusso. Lo immagino in una città coloniale decaduta, dove non ci sia nulla da fare se non guardare: afa che ti abbraccia uscendo dalla porta automatica, palme, stucco color pastello che cade dai cornicioni.
Oppure una grande città industriale, dove trovare al massimo un Hard Rock Café. A Detroit, per esempio. Chissà se a Detroit c'è un Hard Rock Café. Ma non ci andrei, cenerei in albergo, berrei qualcosa al bar. Potrebbe esserci qualcuno che suona, a volte c'è.
Osserverei i clienti da dietro il menu. Commessi viaggiatori che slacciano il nodo alla cravatta, una famiglia araba, un giornalista. Capirei che è un giornalista dalla mancanza della giacca. Dicono molto, le mancanze. "Ciò che non ho è ciò che non mi manca", cantava de André. Ciò che sono è ciò che mi manca, dico (posso?) io.
Le pareti sarebbero tappezate di specchi, per moltiplicare gli spazi, abbondare di immagini. Colore ecru ovunque, tranne che nelle divise dei camerieri: nero d'inverno, bordeaux per l'estate. Sprofonderei nella poltrona matelassé sotto la kinzia, leggendo un libro in una lingua che non conosco. Porterei sempre un foulard di seta al collo e mi sforzerei di non sedermi a gambe incrociate.
E poi in camera, tante ore. Passerei la notte a guardare fuori, a fare lunghi bagni, con la tv su una soap opera messicana senza volume. Potrei anche ordinare una cena in camera, per una volta, e alzare il coprivivande immaginando di trovare una pistola. Sarebbe il massimo per l'immaginazione. Un albergo è una tabula rasa in quattro dimensioni, e l'ecru si porta con tutto.
Sembro malinconica? Forse. Forse è per questo che torno. E non c'è miglior posto di un albergo da cui tornare.

lunedì 8 aprile 2013

Non è politica


Approvata in Uruguay una legge per il matrimonio gay.
In Arabia Saudita ora le donne potranno andare in bicicletta (solo sul lungomare, si intende, ma è comunque un progresso).
E in Italia. 


In Italia niente. Qui abbiamo la politica e l’economia; e già quelle non funzionano. Cercherò di essere responsabile, che è una parola di moda ultimamente: la politica deve occuparsi principalmente dell’economia, del lavoro, del sostegno alle imprese. E poi, certo, c’è da fare un po’ d’ordine nelle casse dello stato (o almeno ricordarsi dove diavolo sono finite). Io tutto questo lo capisco e mi va anche bene. Eppure ci sono dei momenti in cui sento che ci stiamo perdendo la parte migliore, l’obiettivo ultimo di una buona politica e, anche, di una buona economia: i diritti. Una parola per niente di moda ultimamente (i privilegi, piuttosto, i favori)
Se vogliamo davvero tornare a crescere, o smettere di morire, non possiamo non andare avanti a lavorare su tutti quei temi che ci fanno amare uno stato, una civiltà: il rispetto dei diritti delle minoranze, la libertà di stampa, la cura per l’ambiente, l’investimento nella ricerca, l’educazione, la tutela del territorio e dell’arte, la cultura di un’etica laica; le cose nuove, tutte, che permetteranno di essere buoni abitanti del mondo, più che competitivi attori del sistema economico.
Mi sembra che si stia rovesciando la piramide dei bisogni: diamo per scontata l’umanità, lo spirito, la gioia e ci concentriamo, terrorizzati, sul resistere alle minacce alla nostra sopravvivenza. Abbiamo fatto il Rinascimento, cos’è, non basta?
No, non siamo poi così bravi.
Paghiamo questa TARES, ma non smettiamo di pretendere l’opportunità di essere uomini, e di sognare.

martedì 2 aprile 2013

Come i treni a vapore

Lo so, ho questa fissa dei treni. Qualcuno la chiamerebbe con un nome tedesco che - se anche lo ricordassi - non sarei in grado di trascrivere.
Ma, diciamocelo, è una fissa.
 “Il modo migliore per non perdere un treno, è perdere il precedente” – dice George Bernard Shaw.
“Il treno a Cavaglià si ferma tre minuti e poi riparte” – dice Giacomo.
“Quando il treno è passato – aggiungo io – è inutile che torni in stazione a controllare ogni due minuti se ritorna”.
Oggi mi sento come se su quel treno ci fossi io. Sono passata, forse sono stata ferma più di tre minuti, ma ora il treno è uscito dalla stazione.

E mi dispiacerà almeno fino alla prima fermata saperti lì ad aspettarmi, dopo che me ne sono andata.