martedì 26 novembre 2013

Il regalo più bello

C'era un regalo sotto il letto, l'aveva trovato cercando le mutande: sedere al vento, la sua camicia addosso; se fosse riuscita a trovare una cravatta ci avrebbe fatto una cintura  e sarebbe uscita così, sotto la pioggia.
Ma prima doveva trovare le mutande. Era una parola così brutta, pensava, ma erano ancora più brutti tutti quei nomi che la gente si inventava per non dirla.
Mutandine: un babà è sempre un babà, anche se la pasticceria ti vende un mignon. Solo che è più piccolo e c'è meno rum. Era il nome che la innervosiva di più.
Slip: David Beckham non avrebbe mai coperto, con la sua grazia, le immagini di tutti gli uomini di mezza età su tutti i bagnasciuga del mondo. Le piaceva un po' di più solo perché le ricordava il suono di quando, agganciato a dita frementi, scivola giù.
Poi c'erano le varianti in cui la forma si sostituiva alla funzione: coulotte, tanga, brasiliani. Babà ancora più grossi, uomini di mezza età sui bagnasciuga di Mykonos: non le piacevano, nomi artificiali, un po' bigotti. C'era chi non le chiamava affatto e parlava di biancheria, di lingerie: sicuro era gente che non la perdeva sotto letti che non era certa che avrebbe rivisto. "Tesoro, dove è finita la mia lingerie?" Come farsi un giro nel centro di Roma e chiedere a un giapponese la strada per arrivare a quella chiesa famosa.
Adesso se ne vergognava un po', di quelle mutande sciocche, da adolescente. Si pentiva di non aver indossato qualcosa di pizzo nero, o magari quelle azzurre, trasparenti. Ma non sarebbe cambiato niente, non avrebbe voluto comunque cambiare niente: le mani, le labbra, i morsi leggeri, la notte. Non avrebbe cambiato nemmeno la ricerca frettolosa del giorno dopo che le avrebbe fatto scoprire quel regalo sotto al letto. Non lo avrebbe aperto, si sarebbe vestita e raccolto i capelli, gli avrebbe lasciato baciare il collo, gli avrebbe baciato le dita delle mani lentamente, una per una, e avrebbe aspettato.
Perché le sorprese migliori a volte preferisci lasciarle nel loro nascondiglio sotto a un letto e aspettare che siano loro a venire da te quando sono pronte per essere aperte. E mentre si metteva il rossetto sorrideva, perché sapeva che per l'occasione avrebbe indossato le sue mutande più belle.



martedì 19 novembre 2013

Non sai, ci vuole scienza, ci vuol costanza ad invecchiare senza maturità

Marzo 2009, era la serie delle Olive nello Sciroppo d'Acero. 
Non sono cambiate poi tante cose in quattro anni e la cosa mi commuove.
Un po' è gioia, un po' mi sa di no.

Prologo
Mentre ero in banca un gentile signore mi ha regalato un biscotto della fortuna. Il bigliettino recitava: "A child will give you food for your thoughts". E così ho pensato di fare due chiacchiere in chat con mia nipote, che ha da poco compiuto quattordici anni.

N: Ciao Aunty! ho ricevuto il tuo biglietto. I'm so happy, thank you, it's wonderful.
O: Ciao! sono contenta che ti sia piaciuto. Allora, come hai festeggiato?
N: I festeggiamenti con i parenti sono sabato sera. Comunque ho ricevuto dei cioccolatini, una tuta e una stampante.
(Una stampante? vabbe'.)

N: I cioccolatini erano buonissimi. Ma tu come stai?
O: Sto bene, mi diverto, faccio tante cose...
N: Il lavoro ti piace?
O: Sì, va bene... ma mi piace soprattutto perché mi dà tanto tempo libero.
N: Beata te. Io tra la scuola, i compiti, danza e la preparazione degli esami non ho un momento libero. Verrei anche a trovarti ma...
(ma tua madre non ti lascia ancora viaggiare sola)

N: ... ma non ho davvero tempo.
(E io che pensavo che il tempo diventasse un problema solo dopo i 25)
O: Beh, ma tanto torno presto, dai.
N: Che bello, almeno ci vediamo. Ti manca l'Italia?
O: Mi mancate voi, gli amici, la pizza... ma l'Italia in generale non tanto. Qui si sta davvero bene, è un posto civile, la gente è rispettosa e aperta.
N: La pizzaaaa non c'è? Come fai a vivere senza? Io morirei
(fiù, una cosa da quattordicenne at least)

O: No be' c'è, ma non è come quella di casa. Tipo che va un sacco quella con ananas e prosciutto.
N: Ananas? Che tipi buffi i canadesi!
(deve aver visto Mary Poppins recentemente)

O: Puoi dirlo forte baby!
N: ...
O: Guarda le mie foto sullo snowboard
(segue link a facebook, strumento che lei ignora, non nel senso che non lo conosce, nel senso che è superiore)

N: Bellissime, che posti meravigliosi! Vorrei poter vederli anche io.
O: Beh, hai tempo dai.
(smetterai di fare danza prima o poi)

N: Eh non lo so, poi c'è il liceo e poi voglio fare l'università. Voglio fare medicina. Che ne pensi?
(penso che se continuo con questa vita dissoluta, un giovane medico in famiglia mi sarà di grande aiuto)

O: Medicina è pesante e molto lunga, ma se ti piace davvero, se sei convinta...
N: Sì, mi piace molto. So che è difficile, ma voglio farla.
(ok, sto zitta)

O: Se ti piace tanto allora vedrai che non ti peserà. Se sei convinta che è la cosa giusta fai bene a farla. Io ho sempre ammirato le persone con le idee chiare sul loro futuro.
N: Tu volevi fare il tuo lavoro da piccola?
(mmm... ecco, questo è un problema. a parte che il mio lavoro non esisteva quando ero piccola. e ok che avevo un sacco di fantasia... e poi, cioè, non è che proprio faccio quello che voglio, o meglio, diciamo che non so ancora quale lavoro voglio fare. magari tra un po' scopro che è proprio questo, eh,  mica dico di no)
O: Non proprio. Diciamo che non ho mai avuto un sogno in particolare. E' un lavoro che è venuto così, col tempo. Però sono soddisfatta. Mi piace. E comunque ognuno ha il suo modo.
(shhh, le chiamano bugie a fin di bene)
O: L'importante è che quello che fai ti piaccia.
(grazie tesoro)
O: Oh, quando torno mi devi insegnare la piroette.
N: Ok, e tu mi insegni lo snowboard
O: Affare fatto
(forse dovrei dirle che le foto erano da ferma e che, insomma, sulla parte in cui ci si muove ho ancora qualche difficoltà)

N: Ma poi cosa fai? Hai tanti amici?
O: Sì, abbastanza... insomma abbastanza da non sentirmi sola.
N: A volte essere soli aiuta a maturare.
O: Vero, è una parte positiva dell'essere lontani da tutti in un paese straniero. Dovresti provarla.
(tzè, poi ne riparliamo)

N: Spero di averne l'occasione.
O: L'occasione la crei! Quando sarai più grande vedrai che troverai modo
N: Se faccio medicina non so...
O: Oh ma che secchiona. Lo studio è importante, ma devi anche vivere un po'... Ohi, però non dire a tua mamma che ti ho detto sta cosa, se no ti toglie msn
N: Ok. E poi che cosa fai?
O: Faccio lezioni di francese, nuoto, faccio foto, (scrivo cazzate sul mio blog), sto imparando anche a ballare la salsa. Io preferisco il rock, sai, però ci sono questi miei amici simpatici che la ballano e alla fine è divertente. Ah, e poi domani vado a fare tubing.
N: Che cosa è?
O: Scivoli sulla neve con una specie di canotto.
N: Bellissimo. Zia sei fantastica!
(l'ho conquistata ^^)

O: ehehe, sto cercando di cogliere tutte le occasioni e di divertirmi
N: giusto, fai bene tu che puoi
(oh, ma adesso mi vuoi far sentire in colpa?)
N: zia... devo chiederti una cosa
(ecco lo sapevo, adesso mi chiederà se la mia vita sessuale è soddisfacente e poi mi darà un paio di dritte su come sviluppare il pavimento pelvico, derl resto vuole fare medicina...)
O: va bene, dimmi.

N: ... ma tu, le balene le hai viste?

martedì 12 novembre 2013

Senza titolo

Non aveva mai creduto in dio. L’idea di un signore con la barba che vive sulle nuvole le era sempre parsa ridicola. Però credeva in tante cose che, messe tutte insieme, facevano un baffo al signore con la barba.
Credeva, ad esempio, che i giorni sono tutti uguali, finché non ne arriva uno diverso. Credeva che le cose succedono per caso, ma quel che ci resta, con il caso non ha nulla a che spartire. Soprattutto era convinta che ogni persona avesse qualcosa da insegnarle.

Luca in terza elementare le aveva insegnato che non si regalano profumi ai maschi per San Valentino. Che anche alle femmine è meglio non regalare profumi, le era arrivato in insegnamento da Sergio, insieme al flacone ben impacchettato trovato in omaggio nel fustino del Dixan.
Dalla sua amica Eva aveva imparato a lasciare con classe, da Pietro aveva capito che conta di più essere lasciati con classe. Aveva imparato a baciare, che non è una cosa banale, ma il nome di chi glielo aveva insegnato non lo voleva dire mai più. Crescendo, le cose che imparava erano più complicate e in ogni caso sempre più brutte o sempre più belle delle precedenti.

Era così immersa in questi pensieri che aveva saltato la fermata, avrebbe camminato un po’: era in anticipo e aveva creduto di essere in ritardo, e il fatto di dare la colpa al cambio dell’ora e non alla vodka la faceva sentire vecchia, e un po’ bugiarda.
Era convinta che sarebbe stato uno di quei giorni uguali a tutti gli altri: gli uomini passeggiavano sempre con l’impermeabile sopra il pigiama, le macchine si spegnevano ai semafori e le foglie continuavano a cadere scivolando sotto i tacchi delle signore pronte per la messa.

Non sapeva ancora che quel giorno sarebbe stato un giorno un po’ diverso: il parrucchiere le avrebbe insegnato che i boccoli non erano di moda, quell’inverno; Sara le avrebbe insegnato la ricetta dei biscotti di zenzero e un messaggio da molto lontano le avrebbe ricordato che l’amicizia vince il tempo e lo spazio, anche senza velocità.
E poi avrebbe imparato che proprio quando non ti aspetti nulla arrivano le sorprese migliori, e che le sorprese migliori a volte portano lo stesso nome che avresti giurato di non dire mai più.

mercoledì 6 novembre 2013

Questione di livelli

L’amore è una questione di livelli. Questo pensava Agnes raccogliendo i vestiti sparsi sul parquet.
C’erano dei pantaloni molli, forse un pigiama, c’era la buccia di una banana mangiata quando era ancora troppo verde, i fogli di un giornale patinato. L’amore era tutta una questione di livelli per Agnes. Puliva i residence degli studenti, non era un brutto lavoro: capitava di dover pulire il vomito, quello sì che le faceva schifo, ma il più delle volte doveva solo spostare dei libri e piegare qualche camicia, qualche bel golf.
 
Ecco il primo livello dell’amore, la raccolta. Raccogli oggetti, indizi. Devi imparare ad amare tutti i significati che si portano dietro le mutande abbandonate, le parole ascoltate con troppa fretta. Ti devi chinare, devi toccarli, sentire quel che hanno da raccontarti con il loro profumo, il loro colore, il tempo che li ha trasformati o la novità che li ha portati presto a essere dimenticati. Crei un racconto, l’idea dell’altro, qualcosa che si avvicina alla sua conoscenza e lì puoi decidere di fermarti.
Oppure puoi passare al secondo livello (ah, la volontà, che cosa sarebbe l’amore senza la volontà?).

Il secondo livello è l’ingresso. Capita che gli indizi ti piacciano (a volte capita anche ad Agnes tra un giro di polvere e una lavatrice) e allora vai, cerchi di entrare. L’ingresso è fondamentale: si tratta di passare da come ti appare una persona a quel che questa persona lascia scoprire di sé. Non è scoprire la sua verità (e chi la conosce, davvero, la verità su se stesso?): è entrarci dentro. Magari non la sai, magari non ci capisci niente, ma in quella stanza ci rimani e te ne lasci inondare.

Agnes lo faceva, a volte. Le era capitato con uno studente dell’ultimo anno. Erano rari quelli dell’ultimo anno; di solito andavano in appartamenti indipendenti, si spostavano. Lui invece era rimasto nella stessa stanza per tre anni. Agnes amava quella stanza: aveva raccolto pagine stracciate e dischi rotti, aveva raccolto petali di fiori, sentito il profumo delle ragazze che passavano i pomeriggi a studiare lì. Anche lei studiava, ma lo faceva in un’università statale, studiava filosofia senza la speranza che questo la allontanasse dalle pulizie nei residence e negli uffici. In quella stanza non aveva solo raccolto, aveva ascoltato, respirato, sentito la verità del ragazzo dell’ultimo anno. Non era passata al terzo livello.

Il terzo livello è l’abbraccio. Agnes non abbracciava un ragazzo da tre anni, ma questa è un’altra storia. Dopo che hai raccolto gli indizi, dopo che sei entrato nell’altro: ecco, dopo lo devi abbracciare, stringerlo come la corteccia di una quercia centenaria, come il pupazzo di quando eri piccolo o la sabbia bagnata. Lo abbracci finché il punto in cui finisci tu e inizia lui ti sembra non avere più importanza. Accetti, prendi, dai. In quella stanza in cui ti sei fatto affascinare dagli oggetti caduti dalle mensole, quella stanza in cui hai ammirato estasiato i segni dei suoi passi, proprio in quella stanza, con l’abbraccio, inizi a vivere. E non conta tanto quanto ci resti, conta che ci sei.