giovedì 25 giugno 2015

Svuotarle la testa

Guardava Erika seduta sul prato: la linea della schiena che si curvava un po' verso l'alto, le scapole che uscivano - uno sbaglio -  dal vestito di cotone bianco troppo largo, o troppo stretto, non stava a lui dirlo. Quella sua testa bassa a cercare idee tra i fili d'erba. Non l'amava, quella testa. Non ne tollerava i pensieri leggeri, le preoccupazioni sciocche, non tollerava tutte quelle esperienze che aveva accumulato lì dentro e che ora la portavano a essere così: silenziosa e vuota cassa di risonanza delle sue frivole esigenze di base. Le importava mangiare bene e trovarsi dei vestiti carini da mettere; era il tipo di donna che passava giornate a guardare le vetrine dei negozi o a specchiarsi isterica in camera dicendo che niente, in quella massa di stoffa lanciata sul letto, non c'era niente che le stesse bene. Le interessavano le risate delle delle amiche, le interessavano i cani e un po' meno i gatti, le interessava il sesso, forse, ma di questo non era sicuro. Certo le interessava il potere che aveva su di lui.

Le avrebbe aperto la fronte e scavato via tutti i pensieri. Non amava la sua testa, ma adorava il resto: quei suoi occhi liquidi che lo fissavano mentre le scostava i capelli, le guance rosa, le orecchie perfette. Amava la sua bocca per tutti quei motivi per cui si può immaginare di amarla, una bocca; lo sterno magro, il seno quando si poggiava sul suo petto. Adorava il suo piccolo naso, che come un rabdomante la portava sempre, la sera, a poggiarsi tra le sue spalle, e ne amava le braccia per come sapevano roteare nell'aria. Amava la porta segreta del suo ombelico, i fianchi larghi; amava il sapore della sua pancia come non avrebbe mai amato nemmeno la più dolce delle madeleine. Amava i suoi piedi, le ginocchia, tutto.

Si chiedeva se era possibile, se era davvero amore, questo bisogno primitivo che lo legava al corpo di Erika. In passato aveva amato donne intelligenti e bellissime, donne buone; con loro non si era mai sentito così forte e smarrito al tempo stesso. Erano amori che poteva portare da sua madre, senza vergogna, cristallini, eppure erano finiti sempre male: amori gialli, quelli, come la luce del sole che calava lento nel giardino, sui capelli lisci e lunghissimi di Erika.

Si era alzata e gli correva incontro con un fiore in bocca. Era un amore rosso quello che sentiva per Erika, del colore di quella luna che ti incanta, rara, in certe notti d'estate, che ti fa chiedere come sia possibile che sia lì, vera, per te. Lo stupore che provava per lei era lo stesso ed erano sempre più frequenti i momenti in cui si chiedeva se non fosse più nobile questo amore fatto solo di carne e bisogno, senza regola e ragione se non la ragione stessa dell'esistere e farlo sentire vivo.

Non aveva una risposta: la luce gialla stava calando e uno spicchio di luna cominciava a crescere; la sola cosa a cui riusciva a pensare, mentre lei si avvicinava, era come le avrebbe strappato piano, senza romperlo, quel fiore dalle labbra.




lunedì 13 aprile 2015

Avanti

Il giorno in cui si erano conosciuti non l'aveva osservato bene. Aveva dimenticato i Rayban a casa e, con il sole che le bruciava la faccia, la sua concentrazione era tutta dedicata a tenere gli occhi aperti quando gli sorrideva. Aveva paura delle rughe, di fare troppe smorfie.
Per la maggior parte del tempo gli aveva guardato le cosce senza far salire più su lo sguardo, certa che lui l'avrebbe notato, segnando subito un primo punto a suo favore. Era troppo presto per questo genere di cose, meglio fermarsi pochi centimetri sopra il ginocchio. Portava jeans scuri, a contrasto con la mano lunga e bianca, da donna, che a momenti stava poggiata calma e a momenti, invece, volava via descrivendo cerchi di parole nel pulviscolo del pomeriggio.
Aveva sempre pensato che il sole ingannasse, per questo appena poteva inforcava gli occhiali da sole. Era quel genere di imbroglio che è più che altro un eccesso di verità, come la luce nei camerini di Intimissimi. Il baluginio di colori che vedeva sovrapporsi alla sua immagine era reale? Si chiedeva se il suo volto fosse davvero così bello o se era lei che, abbagliata, lo copriva con un'immagine che era reale solo nel suo sguardo.
Tutte queste domande le frullavano in testa confondendola come il vino che lui aveva portato per accompagnare i panini del pranzo del primo maggio. Lui parlava, muoveva le braccia, rideva e si soffermava con lo sguardo su un particolare lontano; le dava spazio. Lei rispondeva, sorrideva, giocava con i capelli, mangiava.
Aveva assaporato il picnic con una lentezza che normalmente l'avrebbe sfiancata, aveva alternato il pane alle fragole, al lambrusco. Per un momento aveva pensato che fosse esattamente quella la felicità: rosso tra le labbra, bianco accecante in testa. Ma era stato solo quando si era liberata della luce che aveva capito davvero che quello sarebbe stato un giorno importante.
Stavano tornando verso le macchine, gli amici li aspettavano più avanti; dietro, il sole del tardo pomeriggio proiettava le loro ombre sull'asfalto. Erano belle, le loro ombre, due corpi che danzavano snelli, fondendosi tra loro e con la terra grigia. In quel momento la confusione della giornata era svanita e aveva capito che doveva andare esattamente dove le loro ombre stavano già andando.




mercoledì 11 marzo 2015

Passare il confine

Lina è arrivata al confine. Lo aspetta.
Ha bisogno di una spinta per passarlo, che sia avanti, che sia indietro.
Entrambe le possibilità la spaventano, entrambe e in egual misura.
E allora vorrebbe dirgli di non fare nulla, solo arrivare presto, abbracciarla.
Tenerla immobile tra le sue braccia.
Finché dura, finché un poliziotto non arrivi a dividerli, finché non le scappi la pipì.


mercoledì 4 febbraio 2015

Prezzemolo e finocchio

Essere superstiziosi porta sfiga, diceva Woody Allen. Non è vero, ma ci credo, rispondeva Maurizio Di Bella.

Tornata dal mio primo viaggio in Asia, ho letto Un indovino mi disse, di Terzani. In Asia c'ero andata in aereo e, al massimo, avrei potuto scrivere Un ladyboy mi disse.
L'ultima volta che sono stata a Parigi ho cercato il caffé dove Jodorowsky legge i tarocchi, il martedì. Però era giovedì e c'era solo un vecchio che leggeva Le Monde, in silenzio. Non dicevano molto nemmeno i fondi del mio caffè: costava due euro e cinquanta e non era per niente buono.
A Bali non mi hanno convinto a cercare Mr Ketuk che ha letto la mano a Julia Roberts: c'era un ristorante vegano da provare e un negozio di gioielli troppo belli da guardare.

In Calabria non ci sono mai stata, ma oggi ho scoperto che in Calabria ti tolgono il malocchio. Si fanno il segno della croce, dicono qualcosa tipo Santarosoliachelinvidiaportivia e poi preparano un pinzimonio in un piattino di terracotta azzurra.
Quando me l'hanno proposto ho ponderato il mio bisogno di riconnettermi con il primo chakra, ho ripensato a Terzani, alla psicomagia e a quando abitavo dalle suore in Piemonte (il massimo della mia esperienza mistica nell'ambito della tradizione cristiana). Alla fine mi sono fatta coraggio e ho accettato. Aspetto ancora di sentire gli effetti di lungo termine, ma nel breve posso dirvi che il potere apotropaico della bagna cauda vince su tutta la linea.


martedì 27 gennaio 2015

Il paradosso di gennaio

Immagino il tempo come un preadolescente grassoccio. Vola sospeso sopra le nuvole, sotto il braccio un enorme ingranaggio di orologio. Un Cupido cresciuto, che ha capito che il vero potere non ce l'ha chi comanda il cuore, ma chi gestisce i timesheet. Anche perché, si sa, al cuor non si comanda.

Gennaio è un mese terribile per la maggior parte di noi umani: dobbiamo disfare l'albero di Natale, iniziare la dieta, affrontare il blue Monday e i giorni della merla. Aspettare la fine di gennaio è una gara di nervi che nemmeno le vecchiette alla fermata del trentadue barrato.
Ogni anno è così. Quando sei giovane dai la colpa alle pagelle, agli esami del primo semestre. Poi cresci inizi a pensare che è un mese messo lì come prova del principio di indeterminazione, che Heisenberg doveva avere gli stessi problemi tuoi.
Un po' te lo vedi:
- Albert, che giorno è oggi?
- Martedì 27.
- Sicuro? Io avrei detto pluterdì 56.

Non conosco nessuno che abbia anche solo pensato "No ma a me gennaio non dispiace, tutto sommato è un bel mese: le lastre di ghiaccio sui marciapiedi, le risse per i saldi in Rinascente, mancano solo 184 giorni ad agosto". Ho tre amici che fanno il compleanno a gennaio, eppure lo odiano. A mia cugina la befana ha portato la bambola gonfiabile di Jude Law, ma questo non è bastato a farle amare il primo mese dell'anno.

Tempo, invece, lo deve amare tantissimo questo mese che inizia tardi e non finisce mai. Forse Albert e Werner darebbero una spiegazione logicamente più elegante a questo paradosso, ma io sono convinta che la spiegazione si possa ricondurre semplicemente a un moto di ribellione adolescenziale del cugino grasso di Cupido.

E mentre noi siamo qui che ci consoliamo guardando Venere che splende nel terso cielo del pomeriggio dicendo però, dai, le giornate un po' si sono allungate, Tempo è lì che fuma il muschio del presepio e se la ride, facendo fare uno scatto avanti e due indietro al suo bellissimo ingranaggio d'oro.



lunedì 29 dicembre 2014

Sai tenere un segreto?

Ultimamente mi sono trovata a riflettere sui segreti. Non sono un tipo che ha molti segreti. Come diceva Marquez? Vivere per raccontarla. E' uno dei miei difetti: appena la so, quando la vivo, ecco che la racconto. Perciò, mi spiace, ma non sto per rivelarvi chi è il vero padre di Rick Forrester o che cosa ho fatto, veramente, l'altra sera (anche perché, siamo onesti, non ne ho la più pallida idea).

Vorrei parlare, piuttosto, del ruolo che hanno i segreti nel definire la nostra personalità e il nostro modo di interagire con gli altri. Roba tipo yin e yang. Tendiamo a definirci attraverso ciò che è visto, fatto, agito. L'effetto dell'azione sul mondo esterno o, meglio, il fatto che un osservatore sperimenti gli effetti della nostra azione ci rassicura sul fatto che esistiamo, che "siamo", in un certo modo. E così raccontiamo, compriamo un certo tipo di abiti, dichiariamo guerre, acquisiamo società, salviamo i lebbrosi. E pensiamo che questo ci definisca come scrittori, fighi, statisti aggressivi e un po' avventati, manager senza scrupoli, suorine caritatevoli. E va bene: siamo ciò che facciamo. Ma è sufficiente?

Se invece fossimo, ancor di più, ciò che non diciamo, non facciamo, non osiamo? Guardo un passante e provo a indovinare tre cose che "non" è. Non è uno statista aggressivo (mica porterebbe a spasso il cane in pigiama, di lunedì), sicuramente non è una suorina caritatevole o una fashion blogger (vedi parentesi precedente), sono anche certa che non sia mio cugino Giovanni. Se metto insieme cento "non è" posso definire un ritratto molto più preciso del signore con il cane rispetto a tre semplici "è". Un po' scomodo, ammetto, ma vero.

Ecco perché ho deciso di iniziare a dare molta più importanza alla massima espressione di ciò che non si è, fa o dice: i segreti. Piccoli peccati mai confessati, desideri profondi che si spaventano alla sola idea di non essere capiti, eventi che non accettiamo o che sappiamo che nessuno accetterebbe, gioie così forti che dirle proprio no, non si può.

E non me ne voglia Marquez, ma ho deciso che per un po' voglio provare a vederla così: se non racconto una cosa, è perché è sto aspettando che diventi ancora più preziosa. Se non me la dici tu, è perché magari hai solo paura che preziosa, per me, non lo sia affatto. E se non ti chiedo di dirmelo, il tuo segreto, è perché forse sto aspettando di essere abbastanza preziosa per ascoltarlo.

Nel frattempo, vi invito a leggere queste e altre cose su PostSecret.com: si impara molto dai segreti degli altri.


martedì 9 dicembre 2014

Racconto dell'acqua

Un racconto Amarcord, ottobre 2010



Se sei di ghiaccio, io mi faccio roccia. Diventa neve e sarò sabbia che scivola.

Lo vedi il mare, laggiù? Spuntano bottiglie di birra come uova di tartaruga. Mi piacciono le spiagge in inverno: ho una foto con un pupazzo di neve che dà le spalle alla marea.
Non fanno falò, qua, come a Seaside: non c’è bisogno. Una volta hai fatto il bagno ed era gennaio. Per anni ho pensato fossi folle, ma è solo che non la conoscevamo ancora, la follia. Buttarsi nell’acqua gelata da un picco alto, con il cappotto.

Sul lungo mare c’è un ristorante ancora aperto: la luce al neon pulsa azzurra come la mia palpebra stanca. Sembra l’insegna di un centro massaggi.
Me lo faresti ancora, tra il collo e le spalle? Riuscirei a non diventare ancora più dura, estensione secca della sedia della tua cucina? Riuscirei a non girarmi per darti un bacio?

Dicono ci sia una risposta scritta con l’Uniposca sulla porta della cabina numero 7.
Controlleremo. Io sto passando sotto la mia mola di pietra, mi faccio sabbia. Ci serve quel tempo, quello che scioglie, per portarci al mare. Ma tu fatti neve, verso di me, e io sarò sabbia.

E poi saremo acqua.