Guardava Erika seduta sul prato: la linea della schiena che si curvava un po' verso l'alto, le scapole che uscivano - uno sbaglio - dal vestito di cotone bianco troppo largo, o troppo stretto, non stava a lui dirlo. Quella sua testa bassa a cercare idee tra i fili d'erba. Non l'amava, quella testa. Non ne tollerava i pensieri leggeri, le preoccupazioni sciocche, non tollerava tutte quelle esperienze che aveva accumulato lì dentro e che ora la portavano a essere così: silenziosa e vuota cassa di risonanza delle sue frivole esigenze di base. Le importava mangiare bene e trovarsi dei vestiti carini da mettere; era il tipo di donna che passava giornate a guardare le vetrine dei negozi o a specchiarsi isterica in camera dicendo che niente, in quella massa di stoffa lanciata sul letto, non c'era niente che le stesse bene. Le interessavano le risate delle delle amiche, le interessavano i cani e un po' meno i gatti, le interessava il sesso, forse, ma di questo non era sicuro. Certo le interessava il potere che aveva su di lui.
Le avrebbe aperto la fronte e scavato via tutti i pensieri. Non amava la sua testa, ma adorava il resto: quei suoi occhi liquidi che lo fissavano mentre le scostava i capelli, le guance rosa, le orecchie perfette. Amava la sua bocca per tutti quei motivi per cui si può immaginare di amarla, una bocca; lo sterno magro, il seno quando si poggiava sul suo petto. Adorava il suo piccolo naso, che come un rabdomante la portava sempre, la sera, a poggiarsi tra le sue spalle, e ne amava le braccia per come sapevano roteare nell'aria. Amava la porta segreta del suo ombelico, i fianchi larghi; amava il sapore della sua pancia come non avrebbe mai amato nemmeno la più dolce delle madeleine. Amava i suoi piedi, le ginocchia, tutto.
Si chiedeva se era possibile, se era davvero amore, questo bisogno primitivo che lo legava al corpo di Erika. In passato aveva amato donne intelligenti e bellissime, donne buone; con loro non si era mai sentito così forte e smarrito al tempo stesso. Erano amori che poteva portare da sua madre, senza vergogna, cristallini, eppure erano finiti sempre male: amori gialli, quelli, come la luce del sole che calava lento nel giardino, sui capelli lisci e lunghissimi di Erika.
Si era alzata e gli correva incontro con un fiore in bocca. Era un amore rosso quello che sentiva per Erika, del colore di quella luna che ti incanta, rara, in certe notti d'estate, che ti fa chiedere come sia possibile che sia lì, vera, per te. Lo stupore che provava per lei era lo stesso ed erano sempre più frequenti i momenti in cui si chiedeva se non fosse più nobile questo amore fatto solo di carne e bisogno, senza regola e ragione se non la ragione stessa dell'esistere e farlo sentire vivo.
Non aveva una risposta: la luce gialla stava calando e uno spicchio di luna cominciava a crescere; la sola cosa a cui riusciva a pensare, mentre lei si avvicinava, era come le avrebbe strappato piano, senza romperlo, quel fiore dalle labbra.
giovedì 25 giugno 2015
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